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Cronaca

Covid-19, l’urlo delle famiglie con disabili: "Non lasciare i ragazzi nella loro disperazione"

Mirella Gangeri, presidente dell’Agedi, è intervenuta a ReggioToday per spiegare i disagi al tempo del coronavirus e trovare le soluzioni per alleviare una nuova sofferenza

Non bastavano tutti i problemi che già c’erano? É una domanda che risuona spesso tra i nostri pensieri. La vita prima del coronavirus aveva le sue difficoltà e con lo scoppio della pandemia ogni minima questione è stata ulteriormente amplificata. 

C’è chi, però, le vicissitudini è abituato a contrastarle ogni giorno e con il Covid-19 si ritrova a veder vanificati gli sforzi fatti per migliorare la propria condizione. Sono tutte quelle famiglie con disabili, impegnate costantemente nel creare pari opportunità ai loro cari che, segnati da impedimenti di forza maggiore, cercano di superare ogni barriera con grande tenacia e consapevolezza di poter vivere una vita normale, come la società odierna dovrebbe garantire alla base di tutto.

Gangeri Mirella-2L’Agedi, dal 1986 schierata al fianco delle famiglie in cui bisogna fronteggiare situazioni di grave disabilità, rappresenta un valido sostegno per i genitori di bambini ed adulti disabili. Proprio in ottica coronavirus, noi di ReggioToday abbiamo raggiunto il presidente dell’associazione Mirella Gangeri (in foto), così da capire realmente le difficoltà del momento e le possibili alternative per garantire attività concrete nonostante la pandemia.

Quali sono i principali disagi per le famiglie con disabili durante l’odierna emergenza?

"Ci siamo sentiti tra noi dell’associazione per capire quali sono realmente i disagi. Non ne abbiamo uno in particolare, ognuno la vive a modo suo. Alcuni genitori soffrono il fatto che si possa regredire. Come si fa a dire che bisogna stare a casa?

Mia figlia ad esempio, abituata ad uscire la mattina, andare al centro diurno, andare a passeggiare con l’assistente e adesso si ritrova a casa. La socializzazione, che è fondamentale, regredisce. Come si fa a trattenere i ragazzi che quando escono sentono il bisogno di abbracciare qualcuno o comunque di stare con gli altri.

Noi, come associazione, siamo abituati ad avere un laboratorio artistico, dove i ragazzi scherzano, dipingono e stanno insieme, ma è anche un modo per far incontrare le famiglie così da confrontarsi. Tutto questo adesso sta mancando. C’è un disagio ma è difficile da raccontare. Ci sarebbe anche l’assistenza domiciliare ma chi è la famiglia che mette a rischio il ragazzo con un’assistente che viene da altre parti? Non è facile per nessuna famiglia, immaginate quelle monoparentali. É una situazione difficile da descrivere".

Il coronavirus ha creato nuove problematiche o ha solo accentuato delle difficoltà che già erano presenti in città?

“Create delle nuove no, ci mancavano i servizi ma facevamo auto aiuto, andavamo nei centri di aggregazione e comunque vivevamo. Tutte cose fatte da noi e adesso certamente il Covid-19 ha stravolto la vita ai ragazzi perché non escono. Ci chiediamo come fa un nostro ragazzo a gestire un ricovero di questi tempi? Solo per un problema di mal di denti dobbiamo cercare la clinica sensibilizzata. Molti se nel lavano le mani, figuriamo cosa dobbiamo aspettarci con la situazione di adesso. La difficoltà di perdere le buone abitudini giornaliere ci fa male. Rispetto a prima aumenta il senso di solitudine".

Le Istituzioni rappresentano un aiuto?

"Non c’è mai stata una reale presa in carico. Non parlerei tanto di Istituzioni, quanto di servizi, dai quali noi non abbiamo avuto nulla. Abbiamo dovuto combattere per spiegare determinate cose. Non c’è proprio il concetto di servizio e questa situazione lo sta dimostra. Lo smart working non c’è per le assistenti sociali. Non c’è il servizio che ti organizza qualcosa. Ognuno a casa sua. 

Ora stiamo solo raccogliendo i frutti, se non si semina niente, non si raccoglie nulla. Ogni genitore ha una grande dignità ed è difficile che ci lamentiamo. Noi cerchiamo di far capire modelli, buone prassi, regole di vita. Ci sono famiglie che sono già sole e abbandonate, altro che coronavirus. Chi sa che esistono? Il trasporto è già un esempio. Il fatto che non ci sia da parecchi anni ha lasciato molta gente a casa, isolata e segregata. 

Gli effetti del coronavirus li vivevamo in maniera spontanea anche prima dell’emergenza. C’è chi dice che i genitori si chiudono nella disabilità, ma non è vero. Se ti accorgi che l’altro non ti ascolta, lo eviti, La famiglia non la cura nessuno. Vuoi o non vuoi devi andare avanti da sola.

Non abbiamo avuto neanche una telefonata dai servizi. Ci manca una piccola task force, non c’è mai stata,  però prima erano sicuri che avremmo fatto tutto da soli ora no, ma non cambia nulla. Hanno emanato la disposizione che i disabili sono autorizzati ad uscire nei 200 metri vicino casa con un accompagnatore, questo significa che non hanno capito niente. Chi si proclama a fare servizi ha il dovere di conoscere e questa non è la risposta a quel bisogno. Parlare di sociale è questo. Se non sei a conoscenza di cosa serve, la risposta non è sempre pertinente”.

La sua associazione, in un momento così delicato, come si sta impegnando?

"Abbiamo parlato con il direttivo e le mamme più attive e ci siamo chiesti proprio questo. Avevamo già un gruppo di WhatsApp e abbiamo pensato di fare qualche telefonata in più per supportarci a vicenda. Cercare di organizzare quello che potevamo fare prima, ma attraverso videochiamate di gruppo o comunque con il telefonino anche per sostenerci. Lo spirito di aggregazione l’abbiamo maturato con il tempo nel quotidiano ed è quello che stiamo facendo anche adesso virtualmente.

Cercavamo, con  questi comportamenti, di tenere duro e speriamo che adesso faccia un buon effetto anche utilizzando un telefono o con l’opportunità che ci ha dato oggi ReggioToday. Ci è stata proposta un’intervista e non volevamo farla generica dicendo che le Istituzioni non funzionano.

Abbiamo raccolto una serie di testimonianze per la chiacchierata con voi e ognuno si è espresso a suo modo, ma tutti hanno detto più o meno la stessa cosa. ‘La situazione è critica, non ci sono parole per descriverla’ ha scritto una mamma. I ragazzi hanno avuto le giornate impegnate chi con il centro, con lo sport, ora però sono a casa. Il senso di solitudine e il non avere le giornate impegnate è per tutte le famiglie un grandissimo problema. ‘Io ho paura di uscire perchè devo proteggere mio figlio’, ci ha detto un altro genitore. Abbiamo, poi, persone che sono più tranquille a stare a casa.”

Quali sono le soluzioni per limitare quanto possibile le problematiche?

“Serve fare di tutto per non lasciare i ragazzi nella loro disperazione. 24 ore con una famiglia con disabile non sono sempre facili e uguali agli altri. La quotidianità senza soluzioni di continuità porta alla solitudine, che sfocia in disperazione e può portare ad altro. Cerchiamo di trovare il modo di stare vicino ai genitori. Viviamo questa difficolta con quella spada di Damocle del ‘dopo di noi’.

Questi figli dove staranno? La dimostrazione è che siamo in un deserto. Dobbiamo pesare che se moriamo, a maggior ragione con questo coronavirus, cosa succederà ai nostri figli? Chi ha la fortuna di avere fratelli bene, chi no spera di morire dopo del figlio. È la cosa più innaturale, ma è la realtà. Questo ‘dopo di noi’ ci sta uccidendo. 

Dobbiamo stare vicini, trovare il modo di andare avanti per prepararci al dopo, sperando che questa situazione ci migliori e faccia capire qualcosa in più a tutti, ma lo scopriremo solo vivendo. L’aggregazione, lo stare assieme e l’auto aiuto servono sempre, quanto meno tra noi.

Non ci sono ricette precise. Non c’è un modo, se dobbiamo riflettere non possiamo pretendere niente dai servizi adesso. Che ti deve fare se devi stare protetto a casa? Non è possibile, comunque per superare questi momenti ci vuole il conforto di qualcuno, una parola giusta, una pacca sulle spalle per dire ‘tieni duro’.

Fra noi che non abbiamo problemi di comunicazione ce lo possiamo dire. Il senso del tempo che i nostri ragazzi non hanno, pesa di più. Oggi noi abbiamo voluto riflette senza fare pena. Non vogliamo farlo. Vogliamo far capire che forse abbiamo bisogno di qualcosina in più in termini non di soldi ma di conforto, di presenza nonostante tutto. Dobbiamo trovare il modo, gli altri non ci pensano proprio.”

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