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Venerdì, 19 Aprile 2024
Cronaca Centro

In Cattedrale si rinnova il rito dell’offerta del cero votivo, l'omelia del vescovo Morosini

Il presule riflette sul profondo significato di fede, sui suoi 50anni di sacerdozio, sul tema della laicità dello stato e del rapporto tra stato e religioni

Il martedì delle feste settembrine è il giorno della dedica, è l'occasione in cui la città si stringe alla sua Patrona per ascoltare in Cattedrale il discorso che il sindaco prima e l'arcivescovo dopo rivolgono a tutta la comunità diocesana. Alla cerimonia eucaristica hanno presenziato i monsignori Milito, Mondello, Renzo, Marcianò e Nunnari, Bertolone, Savino, Di Pietro, Accolla, Bonanno e Oliva.

Dopo gli interventi del neo vicario generale della diocesi Salvatore Santoro e del primo cittadino, Giuseppe Falcomatà, è seguita l'omelia di monsignor Giuseppe Fiorini Morosini che con un messaggio di speranza ha parlato alle coscienze dei reggini.

Ecco l'intervento integrale del presule:
"Carissimi fratelli e sorelle

 Ringrazio tutti voi, autorità, sacerdoti, diaconi, religiosi, seminaristi, fedeli tutti, ma soprattutto voi carissimi confratelli vescovi, per la partecipazione a questa celebrazione, dedicata alla Vergine della Consolazione, nostra Patrona, alla quale questa Chiesa diocesana di Reggio Calabria-Bova ha voluto unire quest'anno il ricordo del 50° della mia ordinazione sacerdotale, avvenuta a Paola il 2 agosto 1969.


Ringrazio il signor sindaco per le parole di saluto e, soprattutto, il neo vicario generale, monsignor Salvatore Santoro, che con questo saluto oggi ha iniziato pubblicamente il suo ministero, mentre ringrazio di cuore il vicario uscente, monsignor Gianni Polimeni, per essermi stato accanto in questi sei anni con sincerità, con dedizione e con disponibilità assoluta. Grazie don Gianni!

 Mi sono preparato a questa celebrazione riflettendo sulla frase biblica, scelta allora come guida, luce e forza della mia vita ed azione sacerdotale: "vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me". Su di essa sono tornato, quando, eletto vescovo, ho dovuto pensare allo stemma e al motto episcopale, riproponendola sinteticamente: "in fide vivo filii Dei".

"Vivere nella fede del Figlio di Dio" significa porre Cristo al centro delle scelte di vita; accettare da lui la luce per risolvere i drammatici problemi sul modo di concepire la persona umana, come difendere i suoi diritti, come affrontare la sofferenza e della morte, come inquadrare la sessualità e la famiglia, come stabilire il potere e i limiti della scienza dinanzi all’etica. Nessuno può dire di avere fede in Gesù Cristo, se sta in un pericoloso equilibrio tra lui e i modi di vivere a lui contrari, contro i quali egli stesso ha avuto parole dure, che hanno messo in crisi quanti lo ascoltavano e poi gli hanno voltato le spalle.

Rifletto, nel contesto di questa festa mariana, sui miei 50 anni di sacerdozio e sulla citata frase paolina, per cogliere nella fede l’opera sacerdotale di Maria, espressa oggi dalla liturgia con il tema della consolazione. Maria  proviene da una stirpe sacerdotale e porta con sé il grande patrimonio sacerdotale d’Israele (Benedetto XVI). La liturgia non fa altro che applicare a lei le prerogative del Sacerdozio di Cristo: unto dallo Spirito e inviato a svolgere la missione di stare accanto all’uomo nel segno della compassione e della condivisione, attuando così la vera consolazione, che consiste nel modo come Dio ci guida: Dio ci consola guidandoci. Gesù nella sinagoga affermò che il brano di Isaia era riferito a lui.

 Anche Maria, perché madre di Gesù, al momento dell’Annunciazione è stata unta di Spirito Santo ed inviata per una missione di consolazione tra gli uomini. Maria si accompagna a Gesù fin sul Calvario, dove con lui consuma l’offerta sacrificale per gli uomini. Nelle nozze di Cana, nella preoccupazione di togliere dall’imbarazzo la coppia di sposi, ci ha dato il segno di ciò che, con le debite puntualizzazioni, possiamo definire l’invio sacerdotale di Maria per consolare gli uomini.

Tutte le volte che noi, vescovi e sacerdoti, riflettiamo sul nostro sacerdozio, ricordiamo il momento in cui le mani del vescovo si sono poste sul nostro capo e ci hanno dato la Grazia di poterci identificare con il testo di Isaia: lo Spirito del Signore è sopra di me. Rivivo perciò questi 50 anni di servizio pastorale, trascorsi con la consapevolezza di essere stato consacrato ed inviato: mi rivedo giovane sacerdote tra i monti di Lamezia Terme, nell’oratorio parrocchiale, tra i giovani nei vari licei di Stato per l’insegnamento della Filosofia, nella Repubblica Ceca agli inizi della ricostruzione dopo la caduta del muro di Berlino, come Superiore del Santuario di Paola cuore spirituale della Calabria, a capo della mia famiglia religiosa, in giro per il mondo ad animare il servizio ecclesiale dei miei confratelli. 

Rivivo, poi, gli anni del ministero episcopale, prima a Locri e poi qui a Reggio Calabria. Non sto presentando un elenco di opere, di benemerenze o di trofei da esporre, ma un bilancio sulla fedeltà a chi mi ha chiamato e sulla coerenza al grido dell’apostolo, fatto mio: "Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato la sua vita per me". E allora, come è giusto che sia, al Magnificat del rendimento di grazie unisco anche il Miserere della richiesta di perdono. Sono consapevole che la missione sacerdotale di consolare deve partire dalla convinzione, che fu anche di Gesù e di Maria, quando riconobbero di essere stati Unti di Spirito Santo e di essere stati inviati per una missione prestabilita da Dio. Il sacerdote sa che il Vangelo possiede gli strumenti necessari per consolare: a lui spetta assumerli e rivolgerli ai bisogni individuati.

Conscio della sua missione, il sacerdote deve saper individuare le povertà, i cuori spezzati, gli schiavi da liberare, i prigionieri da scarcerare, gli afflitti da consolare, nella consapevolezza che lui è ministro di misericordia, contro ogni tentazioni giustizialista prodotta dalla cultura di oggi. Il testo letto di Isaia, nel quale Gesù si identifica, parla di salvezza in termini di benessere terreno, ancor prima che celeste: corona invece di cenere, olio di letizia e non abito da lutto, canto di lode e non cuore mesto. La Madonna ha dimostrato la sua missione sacerdotale di Consolazione accanto al Figlio, interessandosi della buona riuscita di una festa di nozze. 

Comprendiamo così che il ministero della consolazione deve esercitarsi nei confronti di tutto l’uomo. Gesù ha salvato l’uomo nella sua totalità; per cui certi passi del Vangelo sulla fame, sui carcerati, su tutti coloro che in un modo o nell’altro sono ai margini della vita sociale, per propria o altrui colpa, non sono figure simboliche. Lo straniero da accogliere non è una metafora, così come l’affamato e il carcerato. A costo di andare contro il pensare oggi dominante, la Chiesa deve affermare, con tutti i suoi limiti e difficoltà forse anche nonostante il suo peccato, di essere inviata a sostenere una umanità in difficoltà, anche quando questa umanità si trova reclusa nelle strutture punitive dello Stato. È soprattutto a questa umanità che va portata la Consolazione, nel segno di una comunità che crede - che deve credere – nella possibile e reale redenzione di chi sbaglia. Se al colpevole, che deve pur scontare la sua pena, non viene riconosciuta dalla comunità questa reale possibilità di redenzione e non si ha fiducia che questo possa accadere e realizzarsi, allora è inutile inviare un sacerdote come cappellano nelle carceri.

Oggi il popolo credente fa fatica a superare l’ignoranza attorno agli autentici valori cristiani da difendere e del modo come difenderli. Perciò la consolazione da diffondere oggi è soprattutto quella della liberazione da quella inumana schiavitù, che è l’ignoranza del vero messaggio cristiano, ad ogni livello, ignoranza che spesso si coniuga con l’arroganza di chi crede di essere sempre nel giusto. Ciò è dovuto al fatto che la fede, la nostra fede, non è passata al vaglio della vera crisi - benedetta crisi che ci mette in discussione – quella crisi che nasce affrontando il senso della propria vita; quella crisi che nasce quando la vita non è stata misurata con il giudizio sull’affidabilità dei valori proposti dalla fede. 

Oggi, in questo pluralismo religioso e culturale, solo l’uomo che si pone il problema del senso della vita e trova nella proposta del Vangelo una risposta può vivere una fede matura, altrimenti è solo incontro di cultura. L’espressione paolina, vivo nella fede del figlio di Dio, in questo contesto riporta tutti i cristiani sul percorso della loro fede per verificare se essa è veramente scelta di Gesù Cristo, se i valori da lui proposti appagano veramente la ricerca di senso della vita. 

Genitori, non temete se i vostri figli, dopo l’educazione cristiana che avete trasmesso loro, entrano in crisi. È un momento di grazia, se voi li saprete guidare in quel momento, aiutandoli a capire che le risposte agli interrogativi forti della vita vengono dal Vangelo di Gesù Cristo, se scopriranno questo e ne saranno convinti assumeranno una fede incrollabile, che non cesserà mai. 

L'incontro con le altre culture e religioni ci interroga se il nostro cristianesimo è il semplice incontro, senza una critica esistenziale, con la cultura cristiana, espressa con le tradizioni conservate nei luoghi ove siamo nati. Quanti di noi hanno veramente maturato la fede come scelta di Gesù Cristo e del suo Vangelo nel contesto di una crisi del senso alla vita? Solo quando affrontiamo questi interrogativi con sincerità e troviamo nel Vangelo di Gesù Cristo la risposta, solo allora nasce la fede, la vera fede. 

Il mio sacerdozio, ed ora anche il mio servizio episcopale, l’ho racchiuso in questo sforzo di far sì che la fede superi la dimensione solo culturale e sia invece espressione di una scelta di Gesù Cristo. La lettera scritta ai giovani che si preparano alla cresima, dal titolo "voi chi dite che io sia", contiene tutta la mia ansia pastorale.

Senza cadere nell’integralismo fondamentalista, che non appartiene alla mia formazione culturale e religiosa, dobbiamo sentire il fastidio culturale e spirituale di una religiosità senza scelte e radici vere. Dirsi credenti, definirsi cattolici, deve significare il sentirsi membra di una comunità ecclesiale, che ha fatto una scelta di vita e di ideali circa i temi, oggetto del difficile dibattito oggi della nostra società. Una politica che si definisce laica, se trova in questa conclamata laicità la sua giustificazione di un legiferare contro i principi derivanti dalla natura dell’uomo, ai quali Gesù Cristo si è collegato predicando il suo Vangelo, la politica deve uscire fuori dal Limbo relativistico in cui si ricaccia ogni volta che deve affrontare la questione della sua identità.

La politica deve finalmente spiegarci il nesso che intercorre tra la sua laicità e i patronati religiosi, che ancora riconosce e celebra, nonostante la sua laicità. Se una determinata aggregazione, fosse anche lo stesso Stato, riconosce in una figura religiosa il punto di riferimento della sua vita (se so leggere e scrivere è questo il senso di un patronato religioso), ciò deve significare per coerenza che tale figura esprime ideali verso i quali guardare per trovare in essi gli orientamento morali che devono guidare la vita di una comunità che riconosce questo patronato. Non comprendo, ogni volta che ci penso, il significato dato a questi patronati religiosi, quando ormai la nostra società ostenta la propria impostazione fuori dai valori fondamentali che la figura religiosa dovrebbe ispirare, alcuni dei quali non hanno radice nel Vangelo ma trovano radice nella natura dell’uomo, investigabile già con la sola ragione umana.

Forse in questo mese avremo approvata la legge sul suicidio assistito, e poi il 4 novembre si andrà ad Assisi a celebrare il patronato di San Francesco sull’Italia. Certi valori non trovano origine nel Vangelo: la dignità della persona e la libertà della persona, l’oggettività della natura umana, la capacità investigativa della ragione non le ha inventate Gesù Cristo, sono già patrimonio culturale del pensiero greco e latino, e noi quando ci troviamo di fronte a certi problemi, come l’eutanasia, troviamo l’incrocio di due dignità che vengono messe una accanto all’altra: la dignità della vita e la dignità della persona umana. Cosa ci ha insegnato il pensiero razionale dei greci? Non si può salvare una dignità sacrificando l’altra. Io non posso giustificare il suicidio assistito con “la dignità della persona che muore”, ma questa dignità non può negare la dignità della vita umana. Quando queste due dignità entrano in conflitto, entra in gioco il ministero della Consolazione.

Ricordo un grande medico, curava la nostra comunità religiosa a Paola, che a noi studenti ci spiegava il giuramento di Ippocrate e concludeva: “Quando il medico non può fare più niente, allora si mette accanto all’ammalato a consolarlo, ma mai ad ucciderlo”. È una dignità quella della vita, che va rispettata nel contesto del rispetto della dignità della persona umana. Su questo punto i cristiani devono avere chiarezza, perché coloro i quali non hanno chiarezza su questo punto possono dire addio al cristianesimo: non servono processioni e neanche dire “Viva Maria”.

Da questo equivoco si deve uscire, anche se con sacrificio. E non vale la giustificazione che lo Stato laico deve difendere tutti gli orientamenti di vita. Io non mi riferisco ai valori specificatamente cristiani, ma a quelli più basilari che toccano la visione dell’uomo e delle sue relazioni, che decidono e decideranno le scelte di oggi sulla cultura di domani.
Le modalità con le quali si legifererà sulla famiglia, il modo come verrà legiferato sulla vita, incideranno sulla cultura e sulla vita dei ragazzi e dei giovani di oggi. Noi stiamo ponendo le premesse di come verrà concretizzata la vita fra 50 anni, di come verrà pensata la famiglia fra 50 anni.

Benedetto XVI metteva in guardia l’Europa dall’atteggiamento pragmatico, che giustifica sistematicamente il compromesso sui valori umani essenziali, come se fosse l’inevitabile accettazione di un presunto male minore, e quando su di un tale pragmatismo si innestano tendenze e correnti laicistiche e relativistiche, si finisce per negare ai cristiani il diritto stesso di intervenire come tali nel dibattito pubblico o, per lo meno, se ne squalifica il contributo con l’accusa di voler tutelare ingiustificati privilegi.

E non c’è bisogno che spieghi il pensiero di papa Benedetto, basta considerare come vengono trattati i cristiani o le associazioni cristiane che alzano la voce sul valore della Famiglia: vengono tacciati come coloro che odiano coloro che la pensano in modo differente.
Papa Benedetto si appellava agli Stati membri dell’Europa affermando, che, per essere validi garanti dello stato di diritto e efficaci promotori di valori universali, non possono non riconoscere con chiarezza l’esistenza certa di una natura umana e permanente, fonte di diritti comuni a tutti gli individui. 

Ecco, come ho inteso tradurre concretamente in questi anni il mio servizio sacerdotale ispirato al grido paolino: "Vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me". Ho annunciato la fede, che trova le sue radici in una ragione, la cui forza di ricerca della verità precede il pensiero cristiano.

Ed è in questa logica che vedo l’esercizio sacerdotale della consolazione, al quale Gesù e Maria ci invitano. La consolazione più grande è quella di portare l’uomo e la società a superare il relativismo dominante nella nostra cultura e a scoprire le radici di un umanesimo nuovo, che affonda le sue radici sul riconoscimento del primato della ragione e della legge naturale.
Prego il Signore e la Vergine Santissima che concedano alla nostra città ed alla nostra amata diocesi un futuro migliore nel segno di questo umanesimo nuovo, per abbracciare il quale ci vuole il coraggio di andare contro corrente, e di vivere il vangelo fino in fondo.

Grazie a tutti, fratelli e sorelle carissimi, per la partecipazione al mio giubileo sacerdotale. Imploro su ciascuno di voi la benedizione del Signore e, di cuore e con grande affetto, vi porto in questa santa Eucarestia.
Affido a Maria la mia vita e il mio futuro. Con San Martino prego così: "Signore, se sono ancora necessario al tuo popolo, non ricuso la fatica".
 

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