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Lunedì, 29 Aprile 2024
Giornata della memoria / Galatro

Giuseppe Marazzita, il coraggio del soldato reggino internato per aver detto no a Hitler

La storia dell'artigliere di Galatro è raccontata dal figlio Nicola, che divulga una pagina dei lager nazisti ancora poco nota

Nella storia dei lager nazisti c’è una vicenda poco nota e per anni sottaciuta, quella degli imi, internati militari italiani. Natta definì “altra resistenza” quella dei giovani soldati deportati nei campi di prigionia per non aver accettato una vile contropartita di salvezza, cioè unirsi alla Wehrmacht e combattere per Hitler. Il primo a recuperare questa memoria perduta fu il capo dello stato Carlo Azeglio Ciampi, sotto la cui presidenza venne istituita la medaglia d’onore per celebrare l'opposizione alla dittatura e la fedeltà alla patria di quei soldati. Un’onorificenza che pochi hanno potuto ricevere personalmente ed è stata consegnata ai familiari tramandano l’esperienza di padri, fratelli, nonni.

Tra i soldati italiani internati nei lager, circa 650.000, c’era anche un reggino di Galatro, Giuseppe Marazzita, artigliere, classe 1921. La sua vita è stata avvincente come un romanzo e a raccontarla è oggi il figlio Nicola, ingegnere ed ex docente, che al padre ha dedicato il libro “Il coraggio dei tre no”. Tanti furono i suoi rifiuti ai compromessi della Germania nazista, offerta che gli avrebbe risparmiato l’internamento. Eppure lui non ebbe esitazioni, ci spiega Nicola Marazzita: “Mio padre egli altri soldati sapevano poco di politica, filosofia o ideologie. Ma facevano parte dell’esercito italiano ed entrare nella Wehrmacht sarebbe stato come mancare al giuramento prestato. Quei giovani non capivano appieno le conseguenze di quella scelta, non intendevano tradire i loro principi. Quel no fu una dichiarazione silenziosa ma potente nel difendere l’identità nazionale. Una nuova Italia doveva essere possibile e il dominio nazifascista non era accettabile”.

I tre no di Giuseppe Marazzita, soldato di Galatro internato nel lager

La pagina storica degli imi inizia l’8 settembre 1943. Nella data dell’armistizio scattò il piano tedesco Axe, un attacco a tappeto a porti, strutture di radiocomunicazioni, collegamenti viari, depositi militari. I soldati rimasti nelle caserme furono tra i bersagli principali. A Nola si consumò la prima strage nazista in Italia, la brutale fucilazione di militari, un eccidio punitivo delle perdite subìte dall’esercito tedesco. Un evento riportato nei libri di storia e basato soltanto sulla testimonianza dei sopravvissuti. “Mio padre, recluta presso la caserma nolana Cesare Battisti, assistette a quella barbarie – dice Marazzita – e quel momento non lo dimenticò mai. Vide di cosa fossero capaci i soldati tedeschi, che misero in atto quella che papà definiva ‘decimazione’ perché per ogni militare tedesco caduto venivano giustiziati dieci italiani. A Nola questo codice di rappresaglia fu applicato per la prima volta. Mio padre e altri soldati furono costretti a inginocchiarsi e guardare l’esecuzione dei loro compagni.  Quell'evento – continua Marazzita - lo catapultò nella cruda realtà della guerra e forse comprese anche come gli ideali bellici, instillati durante l'addestramento in caserma, fossero soltanto fonte di dolore e morte”.

L’eccidio di Nola diede a Giuseppe Marazzita la motivazione per il suo primo no ai nazisti, a seguito del quale fu catturato a Bolzano e deportato nello stammlager XVII A a Kaisersteinbruch, nei pressi di Vienna. Nel campo di cui si racconta nel celebre film di Billy Wilder ‘Stalag 17 l’inferno dei vivi’ il soldato Marazzita divenne il prigioniero di guerra n. 136920 e trascorse lì venti mesi, che ne segnarono indelebilmente la salute fisica e il cuore. Costruito nel 1939, il lager ospitava detenuti di varie nazionalità in baracche separate da fili spinati, e la prigionia aveva le stesse connotazioni disumane dei campi di concentramento per gli ebrei. “L’aspetto più terribile – prosegue Nicola Marazzita – fu per mio padre la fame, amplificata dal freddo tagliente. E c’era la costante paura di non sapere cosa sarebbe accaduto e se sarebbero sopravvissuti”.

Per rimanere vivi bisognava obbedire subito agli ordini e Giuseppe lo capì quando un altro prigioniero fu trucidato per non aver capito parole urlate in tedesco da un sorvegliante. “Mio padre - dice ancora Nicola Marazzita - mi raccontò di questo episodio mentre guardavamo un film sulla seconda guerra mondiale. Io mi accorsi che traduceva le frasi in tedesco e gli chiesi come conoscesse quella lingua. Mi rispose che era stato obbligato a impararla in fretta e dalla sua mente riemerse l’immagine del compagno di lager che aveva lavato la sua divisa (avevano solo quell’abito, indossato al momento della cattura, e quando riuscivano lo lavavano, per recuperare la dignità della pulizia) e voleva stenderla sul filo spinato. Gli urlarono più volte qualcosa ma lui non comprendeva il tedesco e non eseguì quell’ordine. Venne ucciso all’istante da un colpo di fucile”.

Ricordi di violenza bestiale e orrore, che Giuseppe Marazzita ha tenuto a lungo dentro e ha condiviso con il figlio dopo anni di rimozione. Gli rimase poco tempo per descrivere l’epoca oscura vissuta sulla propria pelle, perché morì a soli 55 anni, debilitato da quel vissuto, nel corpo con una bronchite polmonare, e soprattutto nell’anima.

Nicola lo ha perso a vent’anni, ed era un ragazzo quando il padre si sbloccò e decise di aprirsi e ritornare indietro nel tempo, affrontando i suoi traumi. “All’epoca – confida – la mia età era immatura, oggi gli avrei fatto tante altre domande, ma capii bene quello che aveva passato. Dopo tanto silenzio si trasformò in un fiume in piena… parlava solo di questo, ne sentiva il bisogno. E io ricordo tutto quello che mi disse”.

Documenti originali nel diario che oggi è raccontato dal figlio in un libro 

Il secondo no di Giuseppe Marazzita fu all’adesione alla Repubblica Sociale Italiana di Salò, il terzo lo pronunciò nel ’44, anno in cui uscì dal lager con lo status di civilizzato, insieme ai soldati inviati nelle fabbriche del Terzo Reich, alle quali la guerra aveva sottratto manodopera operaia. Il campo era stato il prezzo della scelta di non diventare un militare nazista, ma neanche stavolta il soldato reggino pensò di collaborare con il regime hitleriano. Disse ancora no, finendo ai lavori forzati. Così nel suo libro Nicola Marazzita racconta la notizia dell’impiego in fabbrica, con la viva voce del padre: “Una mattina, all'alba, ci svegliammo presto e ci fu concesso di avvicinarci alla fontana dietro la baracca, a patto di consegnare i pochi vestiti che avevamo. Eravamo nudi e vulnerabili.  Con sorpresa ci vennero consegnati abiti usati ma puliti e solo in seguito apprendemmo che quei cenci erano appartenuti a deportati che non avevano resistito alle crudeli prove del campo. Ci dissero di raccogliere le nostre misere cose e io decisi di conservare soltanto alcuni documenti e un quaderno nero in cui annotavo gli eventi del campo e gli indirizzi dei miei compagni d'armi”. Quel diario è la prova documentale della prigionia di Giuseppe Marazzita e in esso sono contenute fotografie, annotazioni, poesie e atti confluiti nel libro che Nicola presenta da anni agli studenti delle scuole, come ha fatto ieri al liceo Mazzini di Locri nell’iniziativa organizzata insieme a Ampa Venticinqueaprile alla vigilia della giornata della memoria.

La sede scelta per Marazzita fu la fabbrica dolciaria Imperial, ritenuta dai tedeschi “un santuario dell'arte culinaria”. Continua Nicola: “Quando il capo del campo glielo comunicò, mio padre pensò subito che finalmente avrebbe mangiato regolarmente, recuperando le forze e le energie della lunga permanenza nel lager. E infatti nel ruolo di guardiano dei sacchi che contenevano la materia prima per la torrefazione di caffè e i dolciumi, nonostante la fatica di dodici ore di lavoro al giorno, ebbe qualche motivo di sollievo, perché spesso le ragazze gli portavano di nascosto dolci che divorava affamato”.

Nel grande quaderno nero, Giuseppe ha sempre custodito la fotografia di Helga, la giovane che conobbe in quel periodo e di cui si innamorò contro ogni pregiudizio dei commilitoni. Vienna, che poteva finalmente visitare nel tragitto dal campo alla fabbrica, era invasa da edifici pubblici e residenziali di stile architettonico nazista con decorazioni di svastiche, ma la compagnia di Helga fu una boccata d’ossigeno per il giovane soldato. A Nicola raccontò di una giornata felice al Prater, ammirando la magnificenza della ruota panoramica: lì la ragazza gli regalò quella foto, scattata nel luogo del loro primo incontro. "Se dovesse accadere qualcosa, gli disse, ricordati sempre di me”.

La giovane Herta

Quasi una premonizione, perché davvero il destino li separò con la liberazione di Vienna da parte dell'Armata Rossa: Giuseppe, insieme a migliaia di altri soldati, fu trasferito in un campo di concentramento sovietico a Odessa. Il definitivo rimpatrio avvenne tre mesi dopo, e dopo una temporanea sosta nel centro di accoglienza di Verona, finalmente tornò a Galatro. Helga non la rivide mai più.

Appello nella giornata della memoria: "Non dimenticare, perché può succedere ancora"

Nella giornata della memoria, la storia di Giuseppe Marazzita rappresenta un monito importante, e ancora di più nell’anno in cui questa ricorrenza si celebra in un contesto di guerra nel Medioriente. “Gli imi come mio padre ci conducono a una riflessione – commenta Nicola Marazzita – cosa sarebbe accaduto se avessero detto sì e fossero entrati nell’esercito nazista? Forse gli eventi avrebbero preso un corso diverso aumentando la forza militare tedesca. Non sappiamo se Hitler avrebbe vinto o sarebbe stato ugualmente sconfitto, ma con la guerra sarebbe stata più lunga”.

Parlandone con i ragazzi, attraverso la figura di suo padre Marazzita tiene a trasmettere un messaggio di ripudio della guerra: “Adesso si combatte vicinissimo a noi ma tante sono le guerre nel mondo, molte non le conosciamo ma durano da anni. Ai giovani dico sempre di non dimenticare perché quello che è accaduto nella seconda guerra mondiale potrebbe ripetersi. Il nazifascismo esiste ancora e anche se abbiamo i paracadute della Nato e dell’Europa non siamo al sicuro. La pace non è scontata, dobbiamo tenere alta la guardia, dire no come fece mio padre e difenderla”.

  

  

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