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Festa di Madonna dai vetri delle finestre: la cerimonia isolata dalla peste del 1743

Indietro nel tempo con lo storico Francesco Arillotta. In tempo di pandemia l'immagine di una città flagellata dalla pestilenza che invocava al miracolo

"Esce dalla città tra cento, schiere  su bara trionfal, la Vergin Madre, tuonan squilli e bombarde, e le bandiere fan dei venti al soffiar ruote leggiadre". Con queste parole lo storico reggino Tommaso Vitrioli descrive, nel suo volumetto del 1840 dedicato al culto della Madonna della Consolazione, la processione del Quadro riprendendo i versi del poeta Ignazio Cumbo (metà del ‘600). 

Arillotta Francesco-2Ciò restituirebbe un'immagine assolutamente inedita ed inaspettata, ma molto suggestiva della celebrazione. Queste bandiere che fanno ruote leggiadre al soffiare dei venti stanno a significare che nel XVII secolo nel corteo processionale, erano presenti anche degli sbandieratori? A chiederselo lo storico Francesco Arillotta, (nella foto), in un periodo in cui le feste mariane assumono un sapore inusuale che ci riporta indietro nel tempo quando nel '700 la peste colpì duramente la città.

"Il momento drammatico che attualmente tutti stiamo vivendo - precisa lo studioso - con questo virus che sta trasformando profondamente anche i rapporti sociali, rapportato ai giorni della Festa della Consolatrice, mi fa venire in mente quanto accadde a Reggio nel settembre 1743. In quell’anno, la città era flagellata da una terribile epidemia di peste, che, scatenatasi nella dirimpettaia Messina, si era diffusa anche fra i nostri lontani antenati, decimandoli. Anche in quelle circostanze si pose il problema della celebrazione mariana".

Un periodo disperato in cui  la preghiera rappresentava l'unica àncora di speranza: "Tutti invocavano l’intervento miracoloso della Protettrice. La città era stata completamente isolata dal resto del territorio - prosegue Arillotta - con un rigido e severo cordone sanitario, che impediva qualunque rapporto con l’esterno.

Addirittura, anche all’interno della stessa città si era creata una demarcazione verticale, più o meno all’altezza dell’attuale via Cattolica dei Greci, che praticamente la divideva in due parti, proibendo qualsiasi contatto fra la zona nord e la zona sud urbana. Nell’area dell’attuale chiesetta popolarmente chiamata “cresia ‘i Pipi” sulla collina del Salvatore, era stato realizzato un lazzaretto all’aperto, nel quale venivano rinchiusi, senza alcuna assistenza, senza alcuna protezione dal sole e dalla pioggia, non solo gli appestati, ma anche i loro familiari, o quanti comunque si sospettasse che potessero essere contagiati".

La città era ridotta allo stremo e la morte dilagava non solo per la peste ma anche per altre malattie non curate e per la fame: "In un atto notarile di quell’anno, è scritto che l’arcivescovo - precista lo storico- dà disposizioni per venire incontro alle esigenze dei più poveri e malati, parlando tenendosi precauzionalmente affacciato da una finestra del suo palazzo. Chi voleva fare testamento e chiamava il notaio, doveva tenersi a dodici passi di distanza.

Le cronache dell’epoca raccontano che un certo giorno, in preda alla disperazione, gli appestati del lazzaretto abbatterono la recinzione di quel luogo terribile e scendendo precipiti lungo il torrente San Filippo, oggi via 2 settembre 1943, si rifugiarono dentro degli edifici utilizzati come filande, che sorgevano sulla spiaggia".

Anche in quell'occasione la cerimonia avvenne in maniera differente: "In queste condizioni, i sindaci decisero che la processione si sarebbe fatta ma non sarebbe passata attraverso la città. Così, la piccola struttura lignea sulla quale si incastrava il quadro, portata da alcuni uomini, dopo esser discesa dal lontano Eremo, arrivata davanti alla Porta Messa, che chiudeva la città a nord, deviò verso la spiaggia, e costeggiando la cinta muraria, arrivò fino al Largo della Dogana, il vasto spazio nel quale ogni 15 agosto si teneva la grande Fiera, percorse rapidamente la breve Via del Tocco che portava alla Piazza del Tocco Grande, e accedette al Duomo, dove il quadro fu collocato sull’altare maggiore.

Tutto nel più totale isolamento, con la gente consegnata nelle case. Solo poche famiglie, trepidanti e dolenti, potettero vedere di sfuggita la Celeste Patrona, dai vetri delle finestre. Il quadro rimase nel Duomo fino alla fine della pestilenza, quando, cioè, per fortuna soltanto due anni dopo, la città venne dichiarata liberata dalla malattia, e la vita comunitaria poté tornare alla normalità. Due anni soltanto: è quanto anche noi speriamo oggi che avvenga", conclude  Francesco Arillotta.

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