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Il dibattito

Isabella Marchiolo

Giornalista

Dopo le medie a scuola il Giorno della Memoria scompare

E' vero quello che dice Liliana Segre, per gli allievi più grandi l'Olocausto sta diventando un argomento relegato a poche pagine dei libri di storia

Che l’allarme di Liliana Segre sulla storia della Shoah sia concreto lo confermano i ragazzi. Basta chiederlo a un figlio sopra gli undici anni. Conclusa la scuola primaria, il giorno della memoria diventa un obbligo formale, da assolvere nel minor tempo possibile per essere in regola con le circolari dei dirigenti, che richiedono in quella data lo svolgimento di dibattiti estemporanei sull’Olocausto. E’ un paradosso: lo sterminio degli ebrei è argomento sensibile e scioccante per bambini molto piccoli, eppure solo alle elementari resiste l’impegno di letture, progetti e manifestazioni che raccontino quello che è accaduto (nel modo più delicato possibile, senza immagini né video) e seminino nelle menti dei giovani allievi l’idea che orrori simili non debbano mai ripetersi.

Con i bambini si può arrivare a spiegare che quei loro coetanei sono stati strappati alle famiglie, imprigionati e costretti a subire la fame e il freddo fino alla morte per una persecuzione legata alla razza – e già così, senza spiegare cosa furono i forni crematori, molti si sentono turbati. Aumentando l’età si può dire di più, e invece è proprio allora che il giorno della memoria scompare dalle aule scolastiche. Alle media, qualche insegnante continua a proporre brani da leggere, ma sempre meno. Poi non se ne parla quasi più: è tempo di scrutini e per i docenti, in corsa contro il tempo per concludere le verifiche e stilare i voti del primo quadrimestre, diventa quasi un fastidio sprecare mezz’ora dedicandola alla discussione sulla Shoah.

Come dice Liliana Segre, gli ebrei hanno stancato. A scuola, ovviamente, non si può dire, ma i docenti che scelgono di non occuparsi del giorno della memoria è molto probabile che lo pensino davvero. E lo pensano molti studenti, per i quali però è un atteggiamento comune e non certo nuovo: se andiamo una o anche due generazioni indietro, ricorderemo di quando si scherzava sugli stereotipi antisemiti giustificandola come goliardia, ma poi chi è andato in viaggio d’istruzione ad Auschwitz ha improvvisamente capito che non c’era niente da ridere. La scuola è luogo di formazione, di crescita: se gli insegnanti si annoiano di raccontare l’Olocausto, non saranno gli allievi a chiederlo e a mostrare interesse.

Perché, dunque, non lo fanno? Perché ci sono temi ritenuti più urgenti e vicini alla nostra attualità, e emergenze sociali percepite come di maggiore impatto sui giovani. Insomma, rispetto ad altri tipi di violenza o genocidi, si ha un’illusoria certezza che non occorra più fare tante dissertazioni, che comunque un'altra Shoah non potrebbe mai avvenire. Anche se poi sul web, abituale sede di prodezze da tastiera proprio per tanti adolescenti cyberbulli, proliferano derisioni e violenza verbale che trasudano odio razziale contro gli ebrei. E’ l’antisemitismo, questo sconosciuto – o maliziosamente derubricato, come tanto altro hate speech, a innocuo umorismo nero, o persino libertà di espressione politica. Però tutto inizio esattamente così, per un progetto politico. Folle e diabolico, ma finalizzato all’umanissimo obiettivo di supremazia e potere.

Il rischio di cui parla la senatrice a vita esiste. Le pagine dei libri di storia si moltiplicano, insieme alle guerre, le crisi economiche, le dittature, i governi. Un malloppo di roba, ogni anno di più. Hitler, i lager e lo sterminio del popolo ebraico si studiano in modo meno approfondito – si dà per scontato che quella storia la conoscano tutti, mentre i nostri figli sono totalmente ignoranti su quello che è successo dopo e dobbiamo lavorare su questo. A parlare troppo della seconda guerra mondiale, obiettano docenti e autori di testi scolastici, a fine programma non arriveremo mai agli anni Duemila.

Ma non ci sono soltanto i libri a decretare la sconfitta dell'Olocausto in questo processo darwiniano di adattamento della storia. Anche i sopravvissuti alla prigionia, quasi centenari, si avvicinano all’estinzione togliendo ai giovani la possibilità di ascoltare le loro testimonianze. Sempre che le scuole continuino a invitarli.

Sembra a questo punto inutile la retorica del parlarne tutto l’anno e non solo il 27 gennaio. Utopia, ma pure l’insidia di alcuni insegnanti che divulgano trasversalmente un pensiero antisionista. La definzione internazionale dell'Ihra ha ricompreso questo fenomeno all’interno dei comportamenti d’odio, perché in questo caso il confine tra critiche a un governo e disprezzo verso un popolo è labilissimo: non basta parlarne, bisogna stare attenti a quello che si dice e come lo si dice. Le aule scolastiche non sono tribune politiche o pulpiti di sermoni religiosi. Forse, liberandoci anche dal dovere etico del dibattito a ogni costo (che, diciamolo, non è gestibile da tutti i docenti e spesso gli allievi, se non si è motivati e armati santa di pazienza, rendono un supplizio), basterebbe leggere ai ragazzi quello che già è stato scritto nei libri. Ogni commento è superfluo se si invitano i ragazzi ad ascoltare l’appello di Primo Levi: “Meditate che questo è stato, e scolpitelo nel vostro cuore”. Ma va allenato, il cuore, altrimenti nel bombardamento globale di cinismo e svalutazione emotiva, si inaridisce. Un esercizio che devono fare tutti, bambini e adulti.

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