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Sabato, 20 Aprile 2024
Lo Stretto necessario

Lo Stretto necessario

A cura di Roberta Pino

La Calabria e le sue contraddizioni, tra disperazione e attese speranze

L’antropologo Vito Teti, acuto osservatore di una terra dalle mille sfumature, narra la sua Calabria all’insegna della “disperanza”

Una maggiore coscienza civica del popolo calabrese e la liberazione da una condizione atavica di subordinazione culturale sono state sempre al centro degli scritti dei più importanti intellettuali del Novecento. Tra questi il nostro Corrado Alvaro che in “Ultimo diario” (1948-1956) scrisse “La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società, è il dubbio che vivere rettamente sia inutile”.

Ecco, l’onestà e la Calabria, quasi un ossimoro per gli esterofili che osservano il calabrese con lo sguardo di Lombroso che, dallo studio del cranio di un brigante nostrano, ne scoprì la connessione tra delinquenza e atavismo. I calabresi tutti delinquenti? E’ chiaro che la premessa vuole essere una provocazione per parlare della vicenda Calabria.

Calabria incompresa e reietta. Dal caso “Cotticelli” in poi si è scatenato un grande clamore mediatico, e l’immagine della nostra regione ne è uscita completamente distrutta.

Una disfatta con elementi grotteschi, se si pensa alla commedia dei commissari alla sanità, tra impresentabili e rinunciatari, designati dal Governo, crollati miseramente uno dietro l’altro, ed a farne le spese sono le persone che hanno bisogno di cure, gli ammalati, i disperati insomma, il tutto aggravato in tempi di pandemia. Una situazione di arretratezza, di fragilità che ha tuttavia scoperchiato il vaso di Pandora. In atto però, ancora ci sono gli effetti punitivi, restiamo in attesa della speranza, “ultima a morire”.

E la domanda sorge spontanea: la Calabria è irrecuperabile? Si può fare qualcosa per cambiare un destino già segnato sin dall’Unità d’Italia?

Teti Vito-3Calabria “Terra inquieta”, dal titolo di uno dei tanti saggi scritti da Vito Teti, il noto studioso di antropologia che più di altri ha descritto il territorio e i suoi abitanti con sapienza, profonda conoscenza e sguardo realistico e nostalgico. Teti, ordinario di Etnologia alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Unical e fondatore del Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo, si è occupato di paesi abbandonati, di nostalgie di migranti, di malinconie di poeti in fuga, di cibo e invenzione dell’identità.

Chi meglio di lui può raccontare l’inquietudine che si vive in Calabria? Un moto d’animo che parte già dal paesaggio, dalla morfologia del territorio. “La bellezza e la grandezza di questo paesaggio che mi appartiene e mi
costituisce sta nelle sue rovine. Bellezze e rovine non si escludono, ben al di là di una percezione romantica o estetizzante- si legge in uno dei suoi scritti- le rovine non sono solo segno di degrado, «povertà naturale», dissesto; sono memoria, segni del passato e di una storia che le rende elementi identitari, come il paesaggio, i boschi, le nuvole”.

Già i cambiamenti del paesaggio segnano l’antropologia, la mentalità, la religiosità, l’immaginario, la melanconia delle popolazioni. “Non si comprende l’animo del calabrese se si prescinde dalla geografia tellurica, che ne determina la bellezza e insieme la caducità, dai suoi contrasti climatici, dagli 800 km di costa con il 95 per cento di territorio montano e collinare. Non esiste una Calabria, ma le Calabrie” scrive ancora Teti.

Inquietudine e bellezza, ombre e luci in una terra ricca di contraddizioni, dove ogni cosa può diventare il suo contrario. E due sono in genere le narrazioni che si fanno della Calabria: una è quella che l’associa inevitabilmente alla ‘ndrangheta, quindi tutti malavitosi, e l’altra più retorica che la dipinge come una terra dal passato illustre e quindi ingiustamente maltrattata.

Qual è la verità? Spesso noi calabri, di fronte all’ennesima prevaricazione, facciamo esercizi di magniloquenza, ricordando le nobili origini della Calabria, i suoi illustri antenati, il suo mirabile patrimonio archeologico e storico, le eccellenze calabresi nel mondo eccetera eccetera.

E’ del tutto evidente che non basta più rievocare i nobili natali per uscire da una impasse schiacciante e mortificante. Molte sono le voci di giornalisti ed intellettuali autoctoni che si sono elevate in questo periodo per restituire dignità ad una terra maledettamente complicata.

Anna Mallamo, giornalista della Gazzetta del Sud e collaboratrice di The Huffington Post, descrive sapientemente il paradosso di vivere in questa parte di mondo: “La Calabria che resiste, perché a volte anche solo una normale vita quotidiana, qui, è una forma estrema di resistenza. La Calabria che collude per debolezza, per incapacità, per antica sottomissione, e la Calabria che si ribella ma non abbastanza”.

Antonio Calabrò che, in uno dei suoi scritti su Zoomsud, entra a gamba tesa sull’argomento affermando “in Calabria il futuro non esiste. Il tempo si curva e torna indietro”. Parole forti, in cui il termine “futuro” sembra rimosso per sempre dal dizionario calabrese.

Vito Teti, poi, osservatore per eccellenza della nostra terra. Il suo è uno sguardo lucido e melanconico insieme, espressione di amore filiale diventato paterno, che ha sempre narrato la Calabria “bella” e “amara” senza
pregiudizi e scevra dai luoghi comuni.

“Non mi stanco di ripetere come la Calabria abbia bisogno di cura, di attenzione e di amore, ma anche di parole di verità, a volte dure, come si fa appunto con le persone che amiamo -ha ribadito di recente l’antropologo calabrese- Certo, un’analisi spassionata, sincera, dello “stato delle cose”, che non si nasconda dietro a facili retoriche o giustificazioni, sembra a volte rischiare di consegnarci alla disperazione, all’idea della totale inutilità del nostro operato, dell’indistinzione delle parti in gioco, coinvolte dallo stesso sterile e brutale gioco di interessi.

Ma sbaglieremmo, secondo me, a rinunciare, a cedere, a fuggire, a lasciare campo libero a chi vuole creare un deserto o rinchiudersi in luoghi impenetrabili. Capisco la disperazione, ma credo tuttavia che essa possa
accompagnarsi a una forma lucida, non retorica, di speranza”.

Per il professore Teti “speranza” è la parola chiave per uscire dal guado e per rialzare lo sguardo. O meglio “disperanza”, evidente ibrido di due opposti, un possibile spunto per tentare di immaginare una sorta di prospettiva di riapertura al futuro. La “disperanza”, termine preso in prestito dallo scrittore colombiano Álvaro Mutis, suggerisce una nuova idea di rassegnazione non arrendevole.

“Chi coltiva la disperanza non è disperato, ma ha fatto modernamente, dolorosamente i conti con le umane illusioni. Perviene così a una forma di superamento del disincanto, profondamente etica e lontana da ogni cinismo che, pur senza rinunciare a essi, non postula la necessaria realizzazione dei propri valori” chiarisce Vito Teti nei suoi scritti.

La “disperanza” è il sentimento che può costituire una “risorsa per affrontare le sfide del presente. Sia il passato che il presente contengono, diversamente e insieme, paradisi e inferni, disperazione e speranza”. E il futuro? Per l’antropologo Teti, di fronte ad occhi sottomessi ed increduli, è necessario uscire dagli stereotipi attribuiti ai calabresi che, dinanzi alle sopraffazioni, si mostrano anestetizzati, addormentati, rassegnati.

E torna sulla disperanza. “Per poterci immaginare come soggetti capaci di organizzare il futuro, dovremmo riuscire a far camminare insieme disperazione e speranza. Guardare la realtà nella sua crudezza senza cadere nella rassegnazione. E’ una lezione che ci viene da Corrado Alvaro - conclude Vito Teti - il suo pessimismo non escludeva la speranza e l’utopia”.

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