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Lo Stretto necessario

Lo Stretto necessario

A cura di Roberta Pino

Centro

Ha senso parlare di una Letteratura dello Stretto?

Confronto tra quattro scrittrici dell’Area dello Stretto sulla necessità di codificare ufficialmente le voci intellettuali del Sud

Scrittrici, giornaliste, favoliste, abili ricercatrici di parole si sono incontrate in una cornice unica quale è quella dello Stretto. In un rendez vous promosso nell’ambito di Balenando in Burrasca Festival, nel Castello Aragonese è andata “in scena” la “Letteratura dello Stretto”, dove le bravissime Eleonora Scrivo, Anna Mallamo, Katia Colica e Daniela Scuncia hanno raccontato, attraverso le pagine di romanzi epici, il nostos Mediterraneo.

Le “furibonde penne dello Stretto” (cit. Eleonora Scrivo, ndr) hanno pensato che fosse necessario codificare ufficialmente una letteratura dello Stretto. Perché? “E’ il momento di farlo - hanno sottolineato - ci prendiamo questa responsabilità, soffermarsi su una produzione locale che ha un suo profilo, una sua consistenza, una sostanza”.

Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo

Si comincia con il libro di Stefano D’Arrigo “Horcynus Orca”, romanzo scritto nel 1975. “Straordinario autore indefinibile nelle correnti, nell’appartenenza - spiega Eleonora Scrivo - questo romanzo è un’epopea, un mito, è il viaggio al contrario, è l'anti Ulisse di ‘Ndrja Cambrìa. Ciò che è straordinario è l’antieroe, è l'anti Ulisse che ritorna dopo la seconda guerra mondiale e che, per morire, fa questo viaggio. Viaggio che compie grazie a delle figure immaginarie, reali, che sono del mito, figure femminili o femminine”.

Un libro molto amato da Katia Colica. “L’ho letto da ragazza, perché da bambina mi ero innamorata di Omero, non di Ulisse. Mi sono innamorata dell’Odissea e, ad un certo punto, mi ritrovo una sorta di riscrittura, un viaggio all’incontrario. Qualcosa che mi stava chiamando in maniera forte e che mi stava facendo scontrare con delle creature femminili. Le femminote. Quello che mi ha catturato è stata la famosa questione sessuale del romanzo.

Ad un certo punto, nel ritorno a casa di questo marinaio nonché viaggiatore, trova Ciccina Circè, un personaggio che è una sorta di Caronte. Questa donna vuole traghettare ‘Ndrja lungo lo Stretto in un mare di cadaveri, di soldati, di vittime della guerra, vittime metaforiche di una guerra intima. Ciccina Circè emerge con una carica erotica straordinaria, in contrasto con il carattere necrotico nel quale viaggiano e traghetta ‘Ndrja all’interno di questo Stretto.

Il rischio era quello di perdersi per lui, rischio che diventa opportunità. Questa donna me la sono immaginata come la luna dei tarocchi - prosegue Katia Colica - intanto è un doppio, emerge dal buio nero e arriva col viso come quello della luna, nascosto, non importa chi ci sia dietro a questo viso. Lui le offre un passaggio, spunta, dice, come un gingillo di barca, ad un certo punto suona la campanella ed arrivano le fere che rafforzano la sua fisicità.

Quindi abbiamo Ciccina Circè, personaggio che diventa uno spartiacque all’interno del romanzo. Segna una sorta di confine geografico, arriva con un fisico importante e rappresenta tutti quanti gli elementi. In Ciccina Circè c’è la carne, l’acqua, il fuoco, l’aria che si uniscono in maniera carnale e diventano uno dei punti cruciali della narrazione. Mi sono chiesta se l’autore lo sapeva già.

Quando si cominciano a scrivere i personaggi, magari sono minori e poi, via via, prendono spazio. Io mi immagino Ciccina che doveva fare una sorta di traghettamento, poi diventa così bella, così ingombrante che si è presa tutto lo spazio nel romanzo. Arriva da un abisso, sembra quasi un parto di quest’uomo all’interno della caverna, lui ci esce e non la dimentica più. D’Arrigo, in questo brano, lavora sui giochi del buio, anziché della luce e in questa uniformità del nero comincia a far vedere dei piccoli giochi di luce.

E lui, come un embrione, diventa l'oggetto del parto di questa donna. C’è un’altra significanza che colpisce molto. Lei ha le trecce serpentine, ed è un richiamo ai serpenti, a medusa, soprattutto a Francesca di Dante, per cui lui fa una scelta determinante, Dante affida a Francesca la narrazione dell’amore, non ci vuole mettere in viaggio con una Beatrice che ci porta in una dimensione paradisiaca, ma vuole metterci in relazione con una sorta di volto di donna che esiste ma non si fa vedere, che partorisce ma allo stesso tempo guida, e che vuole lasciare anche l’uomo solo. Come ogni madre, lo vuole partorire ma non lo vuole guidare in maniera sostanziale, gli vuole far vedere la strada, ma poi lui se la deve cavare da solo”.

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Trema la notte di Nadia Terranova

Amore, morte, mare, madre sono immagini che ci parlano della sponda siciliana, legata, indissolubilmente, a quella calabrese. E tra le manifestazioni narrative dello Stretto, Anna Mallamo ricorda l’ultimo romanzo di Nadia Terranova, “Trema la notte”.

“Io sono molto grata a questa scrittrice che della sua identità strettese, ha fatto una delle cose più feconde dello Stretto. Il libro di Stefano D’Arrigo non è narrativa, è un’opera mondo che rifonda questo luogo”. Ma quali sono le altre narrazioni sullo Stretto? E quali sono le narrazioni femminili sullo Stretto? Si chiede la giornalista Mallamo.

“Non ce ne sono. Terranova si è resa conto di questa mancanza”. L’opera narrativa dell’autrice messinese è su un doppio registro, tre sono i romanzi per adulti, e poi una serie di libri per ragazzi, di cui l’ultimo uscito la settimana scorsa, “Il cortile delle sette fate”.

“Ma un libro che è uscito a ridosso del suo romanzo più fortunato, “Addio fantasmi”, finalista al Premio Strega nel 2019, è “Omero è stato qui” - ricorda Mallamo - che raccoglie tutti i miti dello Stretto, da Colapesce, a Scilla e Cariddi, ai fantasmi del terremoto, alle sirene. Lei si è resa conto che c’è un immenso panorama di narrazioni, storie, miti, di usi che adottano fecondissime radici mitologiche, religiose, sacrali che non si sono concretizzate in narrazioni.

Stefano D’Arrigo ha riorganizzato poeticamente lo Stretto, dandoci l’enorme potenza della sua lingua, creata a partire dalle nostre lingue, a partire da quelle antiche che si incrociano in questo pezzo di mondo. Successiva alla narrativa di D’Arrigo, c’è veramente poco e Nadia Terranova ha voluto coprire questo vuoto - e prosegue - i narratori del sud non smettono mai di uscire da qui anche se molti di loro hanno cominciato a raccontare il Sud dal Nord. Se leggiamo le biografie, non fanno altro che tessere continui andirivieni tra i luoghi”.

E Anna Mallamo ricorda Vito Teti, noto antropologo calabrese, che ha studiato a lungo le dinamiche del partire e del tornare, “creando un costrutto che è la restanza, il restare nella sua durata. Lui lo dice chiaramente - spiega la giornalista - i luoghi non sono pezzi di terra, sono trame di memoria, di identità, sono rapporti orizzontali tra umani e tra umani e natura e rapporti verticali con i morti, con le memorie, con i racconti, le usanze, con le parole. Anche se si va via da qui non si smetterà mai di essere di qui. E alcuni autori, dovunque siano andati a vivere, continuano a raccontare i luoghi dove si sono forgiati i loro modi narrativi.

Nadia Terranova vive a Roma ma torna sempre qui. E’ uno dei suoi ritorni periodici, è una diaspora da un lato, ma dall’altro è un eterno ritorno. E’ quello sarà sempre. Nell’ultimo libro di Terranova, uscito a febbraio 2022, l’autrice racconta il terremoto del 1908, che riguarda tutti noi, i nostri antenati. Tutti abbiamo una storia di famiglia, di amici che hanno vissuto quell’evento”.

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Altre narrazioni dello Stretto

Facciamo un passo indietro e arriviamo alla prima metà dell’800. C’è un’altra scrittrice e poetessa messinese, Letterìa Montoro, non molto conosciuta, che viene ricordata dalle relatrici. Montoro è autrice del romanzo “Maria Dandini” che narra la storia di una ragazza che si ribella ad un destino patriarcale già segnato, rifiuta il matrimonio riparatore, si allea ad un’altra famiglia, per sottrarsi alla sorte predestinata di ferale olocausto, ricorda Eleonora Scrivo.

“Questo romanzo scomparso - annuncia Anna - sarà presto ripubblicato”. Per la sponda calabrese viene ricordata, poi, Giovanna Gullì che scrisse “Caterina Marasca”, libro che non si trovava più, pubblicato adesso da Rubbettino. Una donna che ha scritto di una donna. “Un romanzo fortemente autobiografico - rivela Katia Colica - Gullì morì a ventotto anni di polmonite. In questo viaggio racconta se stessa, all’interno di una condizione piegata. La parola più ricorrente del romanzo è “fame”, non solo riferita alla morsa dello stomaco. L’autrice ha ambientato il romanzo in un clima storico liberale, fascista, paternalista e la fame di cui si parla è dettata dalla mancanza di prospettive, la fame peggiore”.

Katia ricorda che all’interno della periferia di Arghillà ci sono tante Caterina Marasca, tante bambine che hanno
questo tipo di fame, non solo di cibo e vestiti. “Si tratta invece di una mancanza atavica che Giovanna Gullì ha raccontato con una ferocia letterale. Il romanzo si caratterizza, poi, per uno stile molto personale, non femminile, schietto, riconoscibile, e per una lentezza nella descrizione. C’è un ambiente sordido, in cui la donna è schiacciata tra due morse, da un lato sei amante, dall’altro sei moglie. Non c’è spazio. Marasca fa di tutto, ruba anche per cercare una via, per cercare un buco nel velo soffocante.

La pubblicazione di Caterina Marasca è avvenuta post mortem ed è stata anche censurata, è l’unica scrittrice che mi viene in mente di quel periodo e non ne conosco altre” conclude Katia Colica non senza un tono di mortificazione e dolore.

Daniela Scuncia si sofferma invece sulla letteratura della montagna, dell’area interna calabrese. “Questo tipo di
letteratura, più che una scrittura patriarcale è una scrittura legata al monte - afferma - mentre la scrittura che noi cerchiamo di individuare è una scrittura capace di guardare oltre quel monte. Una scrittura che va verso il mare. Questo mare, che trova la sponda nella Sicilia, forse non è lo Stretto ma anche il Mediterraneo. Noi dimentichiamo che siamo al centro del Mediterraneo, sia verso Sud, dove incontriamo l’Africa, sia verso Est, da dove proveniamo.

Sono quelle culture a cui dobbiamo guardare, come l’Albania, con l'arbereshe. Così come abbiamo i valdesi, i greci di Calabria. Tutto ciò ci fa capire la grande ricchezza della nostra storia”. Daniela Scuncia cita, poi, il romanzo mondo dello scrittore miletese Giuseppe Occhiato, “Oga Magoda”. “Non si può citare Horcynus Orca senza ricordare Oga Magoda - sottolinea Scuncia - ciò che mi fa amare questo libro è uno scarto buffo che è capace di incarnare Occhiato, è una chiave interessante, ed anche lui, di fatto, inventa una lingua”.

Un libro che Occhiato comincia a scrivere nei primi anni ‘50 del Novecento e pubblica solo nel 2000. Daniela Scuncia, infine, ricorda altri due autori calabresi molto interessanti, Corrado Calabrò e Giusy Verbaro. “Non si può fare una poesia a prescindere dalle radici. Qualunque storia è una storia di Ulisse, qualunque uomo che torna, che va è un Ulisse. Anche Verbaro si è soffermata sul concetto di Mediterraneo e se vogliamo parlare di una letteratura dello Stretto, non dobbiamo limitarci a questo braccio di mare perché noi siamo più grandi, abbiamo qualcosa di molto più grande davanti a noi. Non possiamo essere indifferenti all’umanità che sempre arriva dall’Africa, da ogni parte del Mediterraneo. E ci mescoliamo”.

Un concetto ripreso da Anna Mallamo che conclude l’incontro. “Lo Stretto è un crocevia, è un luogo di passaggi, è orizzontale, verticale, profondo. E’ tutto ciò che passa e lascia sempre qualcosa. E le Sirene non sono creature mostruose che devono uccidere chi passa, sono custodi del luogo”.

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