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Lo Stretto necessario

Lo Stretto necessario

A cura di Roberta Pino

Jolanda Insana: la "pupara dello Stretto" nella lectio di Mallamo

Al Castello Aragonese, la giornalista “strettese” di Gazzetta del Sud, racconta la poetica e il linguaggio magmatico della grecista messinese

La “poetessa dello Stretto” Jolanda Insana, è stata al centro della lectio magistralis di Anna Mallamo, giornalista e responsabile della pagina culturale della Gazzetta del Sud di Messina. Anna, la Caronte del regno della parola, ci
traghetta all’interno del mondo poetico di una delle figure più rilevanti del panorama italiano, per un evento che rientra nell’ambito del Balenando in Burrasca Reading Festival.

L’occasione riguarda le celebrazioni per il cinquantesimo anniversario del ritrovamento dei Bronzi di Riace. Jolanda Insana è la “Pupara dello Stretto”, come lei stessa si è definita, con i suoi versi tutti da scoprire, da portare oltre. Nata a Messina nel 1937, Jolanda narra in poesia il suo linguaggio a tratti duro e anticonformista, che ha le radici in questo fazzoletto tra terra e mare, lo Stretto.

“La sua lingua attinge alla Koinè dello Stretto”, esordisce Anna Mallamo che si definisce “strettese”, per la sua vita
vissuta a metà tra Reggio Calabria e Messina. “Due metà continuamente tramate di partenze e di ritorni. Molta gente vive su queste due sponde e quindi possiamo definirci tutti strettesi. I luoghi - sottolinea - non sono raccolte di mattoni, sono una trama di memorie, di storie, di vissuto. Se noi abitiamo questi luoghi, siamo questi luoghi”. E la lingua, i luoghi, lo Stretto sono richiamati nei versi di Insana, “la cui poesia evoca combattimenti, profondi contrasti che sono il mascheramento di una profonda tenerezza, una profonda pietà per l’umano”.

Reggio Calabria panoramica Stretto

Primo incontro tra Jolanda Insana e Anna Mallamo

Un incontro tra due appassionate della parola, quello tra Jolanda e Anna, che ha il sapore della magia. “L’ho vista per la prima volta quando aveva appena compiuto 70 anni. Aveva pubblicato tutte le sue poesie, a partire dal 1977, data in cui risale la sua prima raccolta, a cura di Giovanni Raboni. L’ho incontrata all’orto botanico di Messina, un luogo improbabile, un fazzoletto di verde in una città senza verde.

Un verde stranissimo, con un giardino che ospita le piante più esotiche, assurde e strane, e mentre camminavo con lei per questi vialetti - era un gennaio insolitamente freddissimo - pensavo alle sue parole e a queste piante. Leggendo le sue poesie vengono in mente botaniche fantastiche, biologie strane, certe piante spinose, che riescono a vivere contro tutto e tutti, senza acqua, senza luce. Sono piante ombrose.

E Jolanda ci stava benissimo dentro l’orto botanico. Ho avuto chiaro sin da subito che era vero quello che lei diceva di se stessa. La sua poesia è proprio un immenso io parlante, furente, che parla sempre e che mette in scena tutto. Lei diceva questo, mescolava continuamente le cose che scriveva, come se fosse un pentolone magico del fattucchiere, aveva un modo bizzarro di comporre. Quando scriveva i versi, li appendeva con le
mollette sul filo del bucato e li guardava, li gustava, li spostava, per averli tutti davanti. Andare a casa sua, era come entrare in questo meraviglioso bucato di parole. Bucato che non sbiancava le cose”.

Il linguaggio di Jolanda Insana

Una poetica del contrasto, dell’asprezza, della ricerca quella della poetessa messinese. Lei si definiva “mastra e pupara di parole”, racconta Anna che cita la poesia Pupara sono, in cui agiscono due personaggi del teatrino dei pupi, lei e lei, lei è la vita, lei è la morte. Due forze che si combattono da sempre, una contesa che attraversa tutto il creato. Questa prima raccolta, pubblicata da Raboni, si intitola Sciarra amara. E cos’è la sciarra per Insana? “La sciarra non è la lite, è la durata della lite, la prosecuzione della vita, perché questa contesa fra vita e morte è infinita e illimitata. E’ la contesa fra i limiti del linguaggio e il linguaggio, tra la finitezza del poeta e l’infinità della poesia”.

E Anna Mallamo ricorda un evento. “Dopo cinquant’anni di produzione poetica di Jolanda Insana, Messina, una città spesso dormiente, si è svegliata e le ha dedicato un convegno molto importante. Una cosa strana pensando alla sua lunga carriera poetica vissuta in disparte, fuori dalla mondanità letteraria. Era tanto più importante perché succedeva in riva allo Stretto, dove Jolanda si era inventata questa lingua che possiamo definire la koinè dello Stretto, la lingua comune, vicendevolmente comprensibile.

Quante volte vi è capitato che qualcuno vi chiedesse di dove foste? Il reggino non viene percepito come calabrese - spiega - alla Calabria si associa un altro dialetto, quello che comincia dalla Piana in su. Gerhard Rohlfs, il più grande studioso dei dialetti calabresi, diceva che il dialetto dello Stretto è il balcone sulla Sicilia. C’è una lingua magmaticamente comune. E da questo magma lei ha tratto la koinè, che è greca, araba, fenicia, normanna. Una lingua alta e bassa, grassa, volgare, improvvisamente elevata, raffinata, è la lingua del turpiloquio, dello scongiuro, dell’anatema che lei ha trovato, forgiato, cesellato. Una lingua minacciata da tante cose. Ci sono usi della lingua con storture”.

E Anna Mallamo si sofferma su un’espressione infelice di questi giorni, “carico residuale”, utilizzata dal Ministro degli Interni Piantedosi in occasione di un recente sbarco di migranti. “Riferito ad esseri umani denota una lingua in pericolo, usata per ragioni sbagliate. A lei non sarebbe piaciuta” chiosa la giornalista. E cita, invece, un elenco delle parole usate da Jolanda.

“Le pronuncia con rispetto, con magia, come quando si pronuncia un sortilegio: Sciarra. Camorrìa. Schiticchio. Làstima. Foramalocchio. Mìzzica. Intrasatto. Criatura. Sdirrupo. Lisciabùsso. Ruzzolaserpi. Tafanario. Malicristiani. Sdisonorati”.

Anna Mallamo vuole lanciare delle suggestioni. Creare contagi invisibili con la storia di Jolanda Insana. E ci riesce. “Parole di reggini e di siciliani, di strettesi - sottolinea la giornalista - sono parole che vengono dalla cucina, lei cucinava le erbe trovate per strada. Quando si andava a cena da lei gli amici non sapevano cosa aspettarsi, cucinava queste erbe e poi ci metteva l’ingrediente segreto, da maga, erbe trovate sulla riva di qualche spiaggia. Solo lei conosceva questi luoghi dove andare a trovarsi le cose. Cercava le foglie di piante che noi non riconosceremmo come commestibili e ne faceva dei manicaretti”.

Mallamo Anna giornalista_lectio Insana

La poetica e le parole di Jolanda

“La sua non è una poesia dialettale, è poesia autenticamente italiana, raffinata, antica. Jolanda era sciarrettera. quando la chiamai per un’intervista, mi disse, “via, la poesia non la vuole nessuno, è superflua, ed è bene che sia così”. La poesia, come dice Raboni, è quella che si fa, è superflua, voluttuaria, libera e necessaria, quindi è superflua necessità, lucida resistenza. Lei mi disse che c’è un uso narcisistico delle parole. Ancora non erano così in voga i social, dove si mette in gioco un sé che può essere ingombrante. E parlammo del web, ed anche lì fu molto chiara, può essere un discorso liberatorio, mi disse, quando non è solo narcisismo, un male dei nostri tempi, come il disamore, una bellissima parola di Jolanda. Il disamore non è l’amore che non c’è più, è la mancanza.

Lei ordinava a tutti di scrivere ogni giorno dieci righe, un esercizio continuo e quotidiano, un lavorìo profondo. E su Facebook molti di noi scrivono poche righe, per esempio mettendo una foto dello Stretto con un commento. Per
tutta la vita Jolanda ha fatto la traduttrice eccellente, lei non trasportava le parole da una lingua all’altra, apriva mondi. Le sue traduzioni erano audaci, erano particolarmente belle. Come Quasimodo, che era un traduttore di classici, quando leggevo le sue poesie, mi innamoravo romanticamente dei poeti greci - ricorda Anna Mallamo - Jolanda non solo traduceva, aveva fatto della lingua classica una palestra di vita”.

E legge alcune parole create dalla poetessa messinese. Lessicorio. Sputafonemi. vogliadesìo. “Non esiste la lingua morta, le lingue sono morte quando sono usate per ingannare, per consumare, le altre sono tutte vive. La poesia per lei era un affaccendamento, una cura, era una disciplina, era una coltellata di bellezza, una poesia che percia, che scava.

Fendenti fonici. Un giovane critico così definì la poetica di Jolanda: estrema arte umana di intervento sul dolore. La spada che lei brandiva non era per offendere, ma per tagliare il male, per cauterizzare le ferite, era uno strumento del bene”.

Le raccolte

“Una cosa bella delle sue raccolte sono gli indici, tratte dalla combinazione di tutti gli incipit, un'ulteriore poesia combinatoria. I titoli più importanti sono Schitìcchio e schifìo, Lessicòrio, Medicina carnale, La Stortura, Fendenti fonici, La tagliola del disamore, Satura di cartuscelle, Turbativa d’incanto che fu l’ultima raccolta della poetessa messinese ma di stanza a Roma da decenni.

La successiva, Cronologia delle lesioni, uscì nel 2017 dopo la sua morte avvenuta nel 2016. Morì malata ma mai doma, sempre dentro a questa sciarra - sottolinea Anna. L’io di Jolanda Insana è sempre un io scalmanato, pieno di insulti, mette in scena una pienezza vitale che impressiona come questi versi: sguàzzati la bocca/ prima di parlare/ nera carcarazza/ non sono pane per i tuoi denti/ manco per tutto l’oro del mondo compro carezza

Sentite che forza - ci dice Anna Mallamo - eppure io non mi sento aggredita da questa poesia, mi sento consolata. Con chi ce l’ha? Questa violenza a cosa serve se non a eliminare la violenza vera? La violenza rappresentata è sempre antidoto alla violenza vera, sconfessa le radici della violenza e lei faceva questo, metteva in scena violenza con la lingua per rifondare la lingua, e le due interlocutrici, l’io e il tu, non facevano che sciarriarsi.

Nelle prime tre raccolte si parla di Trilogia della sciarra: Sciarra amara tra la vita e la morte, Lessicòrio, tra la lingua e il dialetto e la terza è Fendenti fonici, con le note coltellate di bellezza. Lei detestava la poesia che voleva nascere consolatoria. Jolanda provocava il linguaggio fino al limite della sua praticabilità, faceva scorrere sangue, sempre. Parlando della sua scrittura in terza persona diceva “ci sono rugosità e spigoli taglienti, coltellate di bellezza sul ventre molle della vita e pugni allo stomaco, gridi di esultanza e libertà, spudoratezze in funzione di mascheramento protettivo, per troppo pudore del sentimento, per troppa tenerezza”.

Dentro questa lingua spinta all’estremo cosa c’è? La tenerezza! La sua è poesia di sostantivi, di cose, rarissimamente di aggettivi. Usa gli aggettivi come può usare le essenze in cucina. Una lingua così matematica, tellurica, forgiata, molecola per molecola, sillaba per sillaba, anche se poi sembra la biologia fantastica dell’orto botanico.

L’unico posto dove poteva stare una poesia del genere è la faglia dello Stretto, da cui si originano i terremoti. La poesia di Jolanda Insana, se fosse una sostanza, la immaginerei lì dentro sempre affamata, che si gonfia ed ogni
centoventi anni si lascia andare, in uno scuotimento. Immaginate la forza con cui si scatena questa parola per poi scatenarsi alla velocità di un tuono, di un fulmine”.

E la poetessa parla anche della sua città, distrutta in Frammenti di oratorio per il centenario del terremoto di Messina. “Nel 2008, in occasione dell’evento, mi donò una pagina di prosa in Gazzetta, in cui raccontava di una Messina che c’è e non c’è. Ci sono città che transitoriamente perdono coscienza di sé, visione di sé, come se fossero cieche a se stesse, cieche al mare, alla bellezza da cui sono circondate.

E molti di noi sono sonnambuli, come se non percepissimo i luoghi in cui stiamo. Noi abbiamo la bellezza dello Stretto e chi non lo guarda tutti i giorni fa un peccato imperdonabile, non si nutre. E per Jolanda, Messina era la città che chiude gli occhi. Coltellate di bellezza, dovevano essere per lei coltellate di verità. La sua non è una poesia che si chiude in se stessa, che si compiace di questa enorme potenza, è una poesia che comunque ci parla del presente, dell’oggi.

Lei lo diceva con molta chiarezza, “le parole sono capaci di costruire vita, io rivendico le parole di verità, devono dire quello che è, non quello che non è”. Diceva che la poesia deve avere sempre la sua verità. Jolanda combatteva un uso non umano delle parole e diceva “sono parole senza verità costruite con l’inganno per gestire il potere, rispondono non all’essere ma all’avere, che s’afferma con la sopraffazione …invece al poeta tocca il lavoro duro, difficile, tocca la verità, non basta mettersi al mondo e negoziare l'esistenza, bisogna rimettersi al mondo e ripensare la storia. Non basta edificare se stessi, bisogna edificare il mondo”.

Un carico etico di vitale importanza - come sottolinea la giornalista. “Il disamore di cui parlava è proprio questo, il
narcisismo, la lingua vuota, la lingua bloccata, ingannevole. Le lingue che non ci parlano a che servono? Ci sono poesie molto brevi del 2013, tutte dedicate a temi di attualità, una si intitola “Cimitero Putin”, appartenente alla raccolta uscita postuma Cronologia delle lesioni, e le lesioni sono quelle inflitte al linguaggio, alla lingua e all’umanità.

Jolanda è morta nel 2016 - conclude Anna Mallamo - ma se tendete l’orecchio, c’è. E’ nello Stretto dove ci sono le creature mostruose”. E lancia un invito. “Comprate i suoi libri, siate fedeli a quell’insorgenza costante della parola, per far parte del cerchio magico della poesia”.

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