L’amore per la chiesa e per i giovani, ecco la vita di don Italo Calabrò: il ricordo di Nasone
La testimonianza del responsabile del centro comunitario Agape fondato dal prete che sta per diventare venerabile
In Cattedrale, oggi, si vive un momento di grande emozione. Non solo perché è la domenica di festa della Madonna della Consolazione, ma anche perché in Cattedrale, alle 10,30, si apre la fase preliminare dell'inchiesta sulla vita, le virtù e la fama di santità del servo di Dio, don Italo Calabrò.
A più di trent'anni dalla scomparsa del presbitero reggino avvenuta il 16 giugno del 1990 ecco che si avvia il lungo processo, dopo un periodo di circa un anno di lavori preliminari, culminati con il nulla osta da parte della Santa Sede. L'arcivescovo metropolita di Reggio Calabria - Bova, monsignor Fortunato Morrone e tutti i membri del tribunale e il postulatore, dottor Paolo Vilotta, presteranno il giuramento secondo quanto previsto dalle norme canoniche relative alle cause. Si apre, dunque, la fase diocesana ed è un momento solenne che porterà, alla fine del lungo iter, sicuramente, a dichiarare venerabile don Italo Calabrò.
La sua vita è stata, infatti, segnata da una profonda convinzione: la vita ha senso solo se è dono e servizio.
Per conoscere meglio questo "prete abitato da Dio" ecco che ReggioToday ha voluto sentire il ricordo di chi ha lavorato, gomito a gomito, con mons. Calabrò e per questo ha incontrato Mario Nasone, responsabile del centro comunitario Agape.
Chi era don Italo?
"Don Italo è stato un dono del Signore alla Chiesa ed a tutti coloro che lo hanno conosciuto, tra questi anche tanti non credenti. È stato un prete che ha consumato fino all’ultimo ogni frammento della sua esistenza in donazione, alla Chiesa, ai poveri, ai giovani, a tutti coloro che incontrava nessuno escluso mai, come amava dire sempre lui.
Come iniziò l'incontro con i giovani, con gli ultimi?
"Tutto iniziò quando don Italo era insegnante di religione a scuola, al Panella di Reggio Calabria. Era una scuola popolare, molti studenti venivano dalla provincia, la maggior parte erano figli di operai. Eravamo alla fine degli anni Sessanta ed anche a Reggio Calabria si avvertivano i fermenti della contestazione sociale. La protesta partì proprio dal Panella, l'istituto tecnico industriale dove don Italo insegnava, allora la più popolosa e popolare scuola superiore della provincia: oltre tremila studenti, duecento insegnanti, costretti per mancanza di strutture adeguate ad un turno continuo dalle 8 alle 18. Una scuola difficile Dove l'insegnante di religione era talvolta il più bersagliato da battute pesanti ed approcci duri. Ma dove don Italo sapeva muoversi con forza e abilità. Uno dei suoi riferimenti era l’esperienza di don Milani, che cercava di adattare alla realtà della scuola pubblica e dell'insegnamento della religione.
Per gli studenti quell'energico prete era più che un insegnante, era il punto di riferimento con il quale affrontare anche i problemi personali, l'unico con il quale si poteva discutere anche di affettività e di temi sociali. E più è veemente era la loro critica alle istituzioni e alla Chiesa, più costante si faceva la sua attenzione e maggiore il suo desiderio di ascolto e di dialogo. Ma quella di don Italo non è era una presenza accomodante e facile. A quei giovani pronti alla contestazione egli rilanciava una proposta di impegno diretto e personale.
In quell’anno, in tutta Italia, tutte le scuole venivano occupate dagli studenti. Incitava i suoi ragazzi a partecipare al movimento, a battersi per i loro diritti, quando necessario anche a incitare ad occupare la scuola, i palazzi del potere per ottenere la soluzione dei problemi che ostacolavano il loro diritto allo studio. Il primo cambiamento è qui, la scuola è vostra”, ricordava continuamente e tutti dovevano poter rappresentare le proprie rivendicazioni, anche quelli che avevano posizioni più estremiste.
Tra queste c’era anche Lotta Continua che nel 68 aveva molto seguito tra i giovani. Quando si trattò di comporre la delegazione che avrebbe incontrato il Prefetto, fu posto il veto proprio su Lotta Continua, irricevibile in Prefettura per la sua matrice ideologica. Fu don Italo che dialogò con loro giungendo al compromesso: in delegazione, egli stesso avrebbe rappresentato Lotta Continua. Nessuno avrebbe potuto negare l’accesso a un prete, ma tutti dovevano essere rappresentati, anche le anime più radicali, tutti dovevano avere voce. Don Italo ha investito molto sui giovani. Soffrì molto quando fu costretto a lasciare l’insegnamento. Lui ha davvero voluto bene i suoi giovani. Nel rapporto con Lui ognuno aveva la sensazione di essere unico. Riversava attenzioni su tutti, aveva questa abilità, di attraversare le vite delle persone La strada della condivisione, le prime accoglienze".
Dalla scelta di vita impegnata nasce l'accoglienza?
"Si, infatti, con un gruppo di loro dopo il diploma inizia la sfida della condivisione di vita con i poveri dell’ospedale psichiatrico e con i minori abbandonati del Brefotrofio provinciale, dell’orfanotrofio di Prunella di Melito Porto Salvo, del carcere minorile. Nascono così la Piccola Opera Papa Giovanni e il Centro Comunitario Agape e poi i centri di accoglienza della Caritas Diocesana per realizzare il suo sogno di una chiesa e di una società dove nessuno fosse escluso. Fondamentale è stato il suo rapporto personale con ogni giovane e poi con tutti quegli adulti a cui chiedeva di spendersi a favore di quelli che facevano più fatica. A chi aveva deciso di coinvolgersi nel servizio di volontariato non faceva mai mancare la sua vicinanza, il suo accompagnamento spirituale.Conosceva intimamente le persone, le loro fatiche, le situazioni personali e familiari sempre disponibile a farsene carico ed a sostenere. L’altra sua caratteristica era quella di dare fiducia, responsabilità anche a chi era ancora giovanissimo ed in formazione, rischiando tanto, ma facendo sentire tutti valorizzati e protagonisti. Dava pesi anche gravosi ma senza lasciare mai nessuno solo".
Cosa era per lui il volontariato?
"Don Italo aveva una idea moderna e profetica del volontariato.Per lui il volontariato è attenzione alle persone. Si direbbe che nasce proprio provocato dalle persone, dalla constatazione che specialmente alcune persone, le più povere ed emarginate, non sono trattate da persone, cioè con dignità, con rispetto e vivono nell'umiliazione e nell'oblio. C'è poi il superamento delle categorizzazioni. Non ci sono i vecchi ma Pietro, la persona anziana vedovo, con la sola pensione sociale, abbandonato dai figli, costretto ad uno stato di dipendenza totale, lui che era così orgoglioso. Non ci sono i minori, ma Francesco minore, rimasto senza famiglia, avviato prestissimo all'accattonaggio, al furto. Non c'è la categoria degli handicappati, ma i singoli bambini, ragazzi, adulti che hanno sofferto in un certo ambiente, determinate forme di umiliazione. Era profondamente convinto che carità e giustizia dovevano camminare insieme e completarsi anche nello stile che il volontariato doveva assumere nell’impegno per la promozione e la liberazione dei più poveri Il vero aiuto dato alle persone è quello che provoca la loro uscita, dallo stato di dipendenza e di povertà, verso una posizione di autonomia e di libertà".
Come è nato il centro comunitario Agape?
"La preoccupazione di don Italo era la crescita spirituale e morale dei suoi ragazzi, poi diventati adulti, ai quali cercava di offrire il metodo giusto per affrontare le sfide, quello dell’umiltà, dell’approfondimento dei problemi, del discernimento avremmo detto oggi. Ma soprattutto l’invito all’unità, quella sua affermazione che la cosa più importante era volersi bene e che rappresenta ancora oggi a più di trenta anni dalla sua morte la frase rimasta incisa nei cuori di chi lo ha conosciuto ma anche in quelli che si sono aggiunti dopo.
Un volersi bene, un volere bene i poveri, non come frutto soltanto dello sforzo umano ma come un cammino ancorato alla Parola di Dio, all’eucarestia, alla testimonianza della carità. Per Lui il centro di tutto il cuore dell’insegnamento del vangelo era l’amore e non a caso è stato lui a scegliere “democraticamente“ il nome Agape al centro comunitario che ha deciso di fondare per dare una dimensione ecclesiale e comunitaria all’esperienza.
Quando don Italo consegnò a mons. Ferro la bozza dello Statuto per l’approvazione, il vescovo leggendo gli impegnativi articoli che erano stati scritti, dove si parlava di vita comunitaria, di condivisione di vita piena con gli ultimi, di cassa comune, appose la sua firma e commentò “ma queste sembrano le regole di una comunità monastica?” . Mons. Ferro approvò anche la scelta controcorrente di una comunità alla quale potessero aderire pienamente come soci anche non credenti purché disponibili ad impegnarsi per la liberazione dell’uomo, degli ultimi.
Riconobbe così all’Agape un ruolo particolare di cerniera di collegamento con tutte quei giovani e adulti che pur non professando una fede esplicita era in ricerca e di fatto strumenti inconsapevoli del piano di salvezza di Dio. Tanti di questo don Italo li incontrò a scuola, tra gli obiettori di coscienza, ritenendo il volontariato, il servizio civile, anche un mezzo per raggiungere i “lontani” che erano come quegli operai del vangelo che stavano ore inoperosi sulla strada perché nessuno li chiamava. Ed è stato proprio lui a convincere la Caritas italiana e i vescovi che la presiedevano a firmare la convenzione con il ministero della difesa che aprì una delle più belle pagine di semina tra i giovani dei valori del servizio, dell’ educazione alla pace ed alla non violenza. Esperienze che hanno generato anche tante vocazioni religiose".
Adesso c'è l'apertura del processo per dichiararlo venerabile. Cosa ricorda del momento triste del commiato?
"Ricordo la grande serenità con cui ha affrontato il periodo della malattia, è stata l’ultima lezione di vita che ha ci lasciato. Un mese prima di morire, si volle accomiatare con chi aveva condiviso con lui i lunghi anni d’impegno e di vita comunitaria con queste parole: “Io credo che abbiamo pregato in tutta la nostra vita”. Ogni volta che abbiamo lottato per gli ultimi, ogni volta che ci siamo fatti carico di nuove situazioni, era il Signore che pregava. Abbiamo trovato difficoltà, contrasti, ma sempre abbiamo aperto, abbiamo accolto, abbiamo amato: questa è preghiera. Abbiamo cercato di fare passare nella nostra Chiesa, nella realtà civile, questo messaggio di amore con tutte le nostre forze anche se limitate: ma questa è preghiera. Per non farlo dimenticare lo ha scritto nel suo testamento e fatto incidere sulla sua lapide: amatevi tra voi, di un amore forte, di autentica condivisione di vita, amate tutti coloro che incontrate sulla vostra strada, nessuno escluso mai! È questo il comandamento del Signore".
E' difficile portare avanti la sua eredità?
Dopo più di cinquanta anni di cammino, di cui trenta senza il fondatore, per i volontari di Agape, Piccola Opera, Caritas, e di tante altre esperienze di servizio che si sono a lui ispirate il fare memoria serve soltanto se si riesce ad attualizzare il messaggio del fondatore nel tempo presente, con le sfide dell’oggi che si chiamano per esempio covid 19 e aumento delle povertà materiali e relazionali. Una memoria che aiuti a potere rivivere l’oggi con lo stesso spirito che si aveva allora, per trasmetterlo a chi ha la responsabilità di continuare il percorso tracciato. Tanti sono stati i limiti e gli errori fatti, ma se tantissimi sono ancora impegnati dopo tanti anni qualcosa vorrà dire.
Don Italo è stato un dono del Signore alla Chiesa ed alla Calabria e a tutti quelli che l’hanno conosciuto, tra questi anche tanti non credenti. Un dono da non sprecare lasciandolo chiuso in un cassetto o limitandosi ad appenderlo come icona alle pareti. Oggi, più che mai, la Calabria, il Sud hanno bisogno di modelli di vita vissuta in santità da proporre soprattutto alle nuove generazioni. E quella di don Italo lo era. È stata una vita intensa, quasi esagerata, di un prete che ha consumato fino all’ultimo ogni frammento della sua esistenza in donazione, alla Chiesa, ai poveri, ai giovani, a tutti quelli che incontrava nessuno escluso mai".