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Il report

Rapporto povertà Caritas, a Reggio il focus sul fenomeno intergenerazionale

Dagli operatori della città, scelta per rappresentare il Sud nell'indagine Cei, si sottolinea il peso della dispersione scolastica

Gli italiani non sono mai stati così poveri e nel 2021 è cresciuto il divario economico e sociale tra Nord e Sud, con il primo che ha ridotto la percentuale di famiglie di stato di povertà assoluta e il secondo che la vede aumentare con un trend crescente. A dirlo è chi opera in prima fila nel sostegno a questa fascia di popolazione, la Caritas che oggi ha pubblicato il ventunesimo rapporto su povertà ed esclusione, intitolato "L'anello debole". Un nome che evoca la solitudine di chi vive ai margini ed è considerato peso sociale, tenuto alla larga da chi è fuori dall'emergenza, quasi per evitare un surreale contagio. 

Secondo il rapporto dell'organismo pastorale Cei, le famiglie italiano in povertà assoluta risultano 1 milione 960mila, pari a 5.571.000 persone (il 9,4% della popolazione residente) e l’incidenza si conferma più alta nel Mezzogiorno (10% dal 9,4% del 2020). Nel numero, rispetto al 2020, ci sono molte famiglie con almeno un reddito da lavoro, che non basta più. E la pandemia fa entrare nell'anello debole anche chi è diventato ondivago con uscite e ritorni occupazionali che ne danneggiano la professionalità.

La base dell'inchiesta è rappresentata dall’insieme delle persone incontrate nei centri Caritas nel corso del 2021, di cui è stata redatta una scheda anagrafica ed effettuato almeno un intervento. Il rapporto vero e proprio si è poi ristretto alla preponderante categoria di età compresa nel 2022 tra 36 e 56 anni, di cittadinanza italiana e non senza fissa dimora. Si tratta di 24.105 unità divise per regione ecclesiale, dove la Calabria conta 485 unità e un'incidenza della Caritas pari al 2% - la percentuale più bassa del paese, che in parte si spiega con la minor presenza di strutture operative dell'organismo Cei nel Mezzogiorno). 

A Reggio il focus group per il Sud sulla povertà intergenerazionale

Una parte significativa del rapporto rigurda le testimonianze dei poveri intergenerazionali. I dati raccolti sono l'esito di un'indagine a campione effettuata tra operatori nell'ambito di diocesi rappresentative delle cinque aree geografiche del paese (comprese le isole), tra cui per il Sud, quella di Reggio Calabria. I referenti reggini della ricerca qualitativa sono stati Maria Angela Ambrogio e Alfonso Canale e il focus group cittadino costituito come punto di riferimento del rapporto era composto da figure variegate di Caritas, istituzioni e terzo settore: assistente sociale; responsabile emporio della solidarietà Caritas; responsabile Centro di ascolto diocesano Caritas; responsabile centro di accoglienza di ispirazione cristiana; responsabile help center; educatrice Centro Aiuto alla Vita; educatrice pedagogistica; esperta PON; responsabile centro di ascolto parrocchiale; progettista sociale.

A loro, che ogni giorno lavorano sul campo accanto alle esistenze rinchiuse negli "anelli deboli", sono state somministrate interviste sulla percezione della povertà, la trasmissibilità, le cause e le opportunità di riscatto sociale sul territorio.

La povertà intergenerazionale è un fenomeno antico tornato drammaticamente attuale, quella condizione perpetuata tra generazioni diverse, come una condanna. Una gabbia dalla quale è impossibile uscire per liberarsi, e che toglie ogni speranza per il futuro. L'esperienza degli operatori reggini ha evidenziato il ruolo nefasto della dispersione scolastica, che in Calabria ha il tasso record del 22,4%. La povertà, come avveniva in passato nelle famiglie contadine indigenti, non si estingue perché le famiglie non riescono a garantire l'istruzione ai propri figli e spesso molti sono persino incapaci di valutarne l'importanza. La scuola non porta soldi a casa ed è un impegno fastidioso, così i ragazzi sono abbadonati a se stessi e finiscono per non andarci più. Un altro aspetto riguarda la difficoltà di sostenere i costi di una prosecuzione degli studi: la convinzione che occorra trovare il prima possibile una minima fonte di guadagno spinge queste famiglie ad accontentarsi per i figli di un titolo base (quello dell'obbligo) o, in caso di studi superiori, scoraggiare un eventuale interesse per i licei, scegliendo gli istituti professionali e alimentando anche la nomea di basso livello culturale di questi tipi di indirizzi.

L'insidia della dispersione scolastica e la sfiducia nel futuro

Un altro elemento emerso dai report reggini è il forte condizionamento territoriale per chi vive in contesti di quartieri ghettizzati e sente l'emarginazione da parte delle zone centrali della città. I ragazzi sviluppano sfiducia e passività. "Spesso - dice un operatore - è difficile mettersi in gioco, ricominciare. Mi è capitata di recente una situazione in cui c’era proprio questa paura, la paura di ricominciare, di non fare la fine che ha fatto il genitore. La volontà c’è ma prevale la paura.” 

I casi citati dai volontari reggini dimostrano che la catena è stata spezzata proprio nei casi in cui i giovani hanno completato gli studi, accedendo così a un mercato occupazionale qualificato. Dovremmo averlo imparato due generazioni fa dai tanti medici, ingegneri e professori figli di analfabeti e capaci di prendere in mano il proprio destino e cambiarlo. Invece l'atteggiamento più diffuso è un'apatia sfiduciata e priva di autostima. La diocesi è un nido accogliente, di cui molti, proprio perché convinti che le cose non cambieranno mai, abusano. Racconta un altro volontario reggino: “C’è un’abitudine alla rassegnazione, all’apatia e quindi all’assistenzialismo. Preferiscono venire in parrocchia, è a due passi, e chiedere. Se poi si dice c’è quella opportunità, ti accompagno in quell’ufficio, dicono di sì e poi non vengono all’appuntamento.” 

Sarebbe facile lanciare qualche frecciata anche sul reddito di cittadinanza, poiché i nuovi poveri presentati dal rapporto Caritas soprattutto al Sud sono percettori di rdc. Ma oggi è stato lo stesso presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, in occasione della giornata internazionale di lotta alla povertà, ad ammonire sulla necessità di mantenere questa misura e, con i dovuti aggiustamenti, persino ampliarla "in un momento in cui la povertà sarà ancora più dura, ancora più pesante e rischia di generare ancora più povertà in quelle fasce dove si oscilla nella sopravvivenza, che devono avere anche la possibilità di uscire da questa zona retrocessione".

Le proposte di riscatto dei volontari reggini puntano sull'ascolto attivo

Agli operatori è stato chiesto di suggerire percorsi di risalita dalla china della rassegnazione. Tutti hanno risposto usando parole ricorrenti: relazione, accompagnamento, ascolto. Facendo leva sul protagonismo delle persone prese in carico e sulla loro volontà di scegliere e farsi parte attiva. A Reggio si cita il progetto “Una famiglia per una famiglia”, dove un nucleo familiare in situazione di disagio viene accompagnato da un’altra famiglia, creando una relazione di sostegno emotivo, empatia e mutuo soccorso. Una spontanea alleanza o, come l'ha definito un operatore, un "welfare di comunità”, che non si sostituisce all'aiuto materiale, ma intanto abbatte il muro della solitudine. "L’ereditarietà della povertà - continua il volontario - può essere contrastata con l’ereditarietà della positività che non è mero ottimismo ma si intende nella logica della speranza creativa. È vero che ciascuno di noi vive il dolore, ma quando ti accorgi che a parte te e quello che hai, attorno a te ci sono risorse e altre persone, questa consapevolezza riduce la dimensione del tuo problema"

Il contributo di un altro volontario della città aggiunge: "Secondo me serve anche valorizzare l’arte, la cultura, tutto quello che è la dimensione del bello che crea anche una formazione all’armonia. Può aiutare quella spinta che serve per cambiare rotta e vedere la possibilità di uno spazio nuovo.”  

La storia di Dina, un destino che si ripete da tre generazioni 

Il disagio della povertà fa stringere il cuore ascoltando la viva voce anche delle persone direttamente coinvolte, attraverso i colloqui condotti dalla Caritas nelle città campione, dove Reggio è in compagnia di Cagliari, Pisa, Torino e Verona. A Reggio la condizione di indigenza si trasmette anche con il fenomeno dei matrimoni nei rioni popolari tra soggetti a bassa scolarizzazione, figli di genitori con al massimo il diploma di scuola media, se non analfabeti. Molti giovani avrebbero voluto studiare o ottenere una specializzazione professionale ma sono stati frenati dai genitori, che a loro volta hanno memoria di percorsi scolastici fallimentari e instillano nei figli il proprio mai rimarginato senso di inadeguatezza. 

“Io ho voluto lavorare già da piccola - dice un'intervistata - anche perché mamma aveva queste difficoltà. Il mio sogno era studiare ma non c’era possibilità. Ho aiutato qualcun altro e ho aiutato la mamma. I miei genitori non è che non ci incoraggiavano, è che non c’erano possibilità.”

I poveri a Reggio vivono in una bolla familiare nociva, con pochi contatti esterni e l'umiliazione di uscire dal proprio quartiere, una comfort zone omologante ma senza rischio di emarginazione, per aprirsi ad altri contesti sociali dove queste persone si sentono in imbarazzo perché non hanno gli abiti giusti o essere giudicati o etichettati. “Conoscendomi - dice un'altra donna - mi amano tutti. La mia vita è lavoro e casa, sono abbastanza socievole, a volte vedo gli amici. Ma essendo che non ho vestiti belli, cose, non mi piace andare tanto in giro, perché poi mi criticano qui da noi, non vedono la situazione.”  Il suo nome fittizio è Dina, ha 46 anni e nella famiglia d'origine sei persone vivevano in una cucina adattata ad abitazione. Il padre vendeva fiori per strada e quando ha trovato lavoro come artigiano è stato stroncato da un infarto, così anche Dina ha dovuto ripetere la sorte dei genitori - ha tirato fino alla terza media poi ha lasciato gli studi. Sposa giovanissima, quando il marito si è ammalato e non ha potuto più lavorare, ha chiesto aiuto alla Caritas per dar da mangiare ai bambini, e si arrangia facendo le pulizie in nero.

Da quella cucina di fortuna all'umida casa di legno accanto al torrente, dove ha cresciuto i suoi figli, adornata con piantine all'ingresso per mitigarne la bruttezza, la povertà si rigenera come un cancro. Una delle sue figlie, già 23 anni, è sposata e ha due figli, che non sa come deve mantenere perché il marito dopo un incidente non lavora più. "Mia figlia - spiega - per comprare un vestitino a suo figlio piccolo dovrebbe spendere 30 euro ma con quei soldi può mangiare per una settimana! E poi mandare a scuola i bambini è ormai troppo costoso". Nel tempo libero Dina non vuole incontrare nessuno: non si sente a suo agio e pensa di essere criticata per il suo abbigliamento dozzinale. “Parlano e nessuno pensa alle cose che si vivono. Io invece ormai se guardo una persona negli occhi, vedo se c’è un problema, anche se lo vuole nascondere.”

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