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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Tradizioni / Centro

Le caddare della festa, appendice settembrina dei riti del maiale

Domani tornano ad accendersi in città le pentole per la preparazione delle frittole, legate alla tradizione dell'uccisione del porco

Nel giorno dell’entrata della Sacra Effigie nella Cattedrale si accenderanno domani in città le fumanti caddare che celebrano il momento più pittoresco dell’evento patronale, quello della preparazione delle frittole, piatto tradizionale della festa settembrina. Quest’anno la tradizione tramandata da un modello di vicinato, che si ripete da sempre con modalità total free di locali e macellerie, all’insegna di una caotica punteggiatura cittadina di pentole e aromi pungenti, è stata irreggimentata nell’organizzazione di un villaggio di stand gastronomici. Idea che ha fatto storcere il naso ai puristi, per i quali evocare lo street food parlando dei nostrani curcuci è quasi una bestemmia.

In realtà la festa della Madonna della Consolazione ha istituito un’appendice autunnale e “regginizzato” un’usanza, quella delle caddare, che in tutta la Calabria (compresa la nostra provincia) si ambienta più in là nel tempo, e precisamente all’inizio dell’anno, quando si celebra con solennità e pragmatico lavoro duro il sacrificio del maiale. Non è un caso, perché gennaio è il primo mese percepito come invernale e dunque foriero dell’annuncio di temperature rigide, che richiedono cibo energetico, calore e sostentamento fisico.

La caddara e i riti del maiale, tradizioni a tinte forti  

Se si raccontano le tradizioni del maiale in Calabria occorre esordire con l’avvertenza di contenuti che possono turbare la sensibilità degli spiriti fragili. Una precauzione obbligata per non ritrovarsi, all'apparire delle immagini del roseo cadavere dissanguato e squartato, al centro di un fuoco incrociato di indignazione, ribrezzo e furiosi attacchi animalisti e salutisti. Sembra che l’overdose mediatica delle cronache di efferati delitti e foto raccapriccianti faccia comunque meno impressione del puarcu calabro allevato, ucciso e cucinato nel caratteristico pentolone per stomaci e olfatti forti. In realtà è ormai quasi un’impresa più da esploratori che ricercatori trovare qualcuno che lo faccia davvero in quel modo, come tramandato dai nonni appartenenti a generazioni decimate dalla povertà e il freddo, per le quali sua maestà il maiale rappresentava il bene più prezioso, cioè la salvezza dalla fame.

Accade ancora nelle campagne della provincia reggina grazie a una solida ritualità preservata dagli anziani, ma quasi mai viene osservato alla lettera quello che in origine era un autentico cerimoniale lungo diversi giorni. Certo soppressate, ‘nduja, e frittule, curcuci e scarfuagli che si potranno gustare in città in questi giorni, continuano ad essere marchio rinomato della tipicità alimentale calabrese, ma oggi si tratta di una tendenza locale proiettata dall’ambiente intimo delle famiglie alla dimensione collettiva delle sagre e fino a quella commerciale della gastronomia veloce (il nostro villaggio del satizzo vi ha messo un’etichetta oriunda, ma quello è), nella quale si è persa la complessità dei significati antropologici legati al maiale.

Usi smarriti anche in nome di un processo storico irreversibile, ovvero il rifiuto di quella tradizione come marchio di arretratezza e inciviltà, qualcosa da nascondere agli occhi rinchiudendolo nei vasci insieme alla questione contadina e l’abbandono di un’intera fascia sociale. Sin dall’Ottocento le autorità amministrative e sanitarie di molti comuni calabresi di confine tra città e campagna inorridivano alla vista dei maiali “da passeggio”, tanto da emanare specifiche ordinanze per ricacciarli nelle porcilaie e regolare l’emergenza igienica nei pressi dei mattatoi pubblici. Pipistrelli, pangolini e Wuhan non facevano un baffo alle infezioni diffuse da sangue guasto e brandelli di carogne dei nostri porci, ma l’unica pandemia da prevenire era quella della fame e il porco era venerato salvatore.

Insomma la tradizione del maiale va narrata nel modo giusto. Anche perché l’animale con la coda a turacciolo nella nostra terra non è stato soltanto immolato per la nutrizione dei contadini. Sappiamo con orrore che maiali aggressivi sono stati addestrati per le esecuzioni di ‘ndrangheta e aizzati per divorare le vittime o fare a pezzi i loro resti e sottrarli al ritrovamento. Lo abbiamo visto recentemente nella seguitissima serie Amazon Prime “Bang bang baby”, ispirata all’epopea criminale dei Serraino, dove un maialino domestico era vorace alleato di vendette sanguinose e a costo zero di smaltimento cadaveri.

Come cambia l'uccisione del porco, dagli scannaturi alla pietà della pistola 

Ma contro ogni fama ributtante, nella provincia reggina il porco è invece atavicamente rispettato e amato dai suoi allevatori e questo non deve suscitare rigurgiti snob - ancorché questo rapporto affettivo costituisca un crudele tradimento quando la bestia pasciuta e cresciuta, in un attimo di senso terribile di morte capisce che tutta quella cura era finalizzata al macello. Eppure nell’antichità il maiale, come ricorda il suo nome, era simbolo di prosperità delle terre e consacrato a Maia, dea dell’agricoltura.

Un’aura sacrale che lo ha portato nel tempo ad assumere un ruolo centrale nella vita dei contadini. Bisognava essere poverissimi per non avere un porcile (chiamato nelle varie zone della regione zimba o zimmunu varianti accomunata dalla radice etimologica della parola tedesca zimmer, cioè stanza), di solito allestito dentro grotte o locali lontani dalle case, nei quali ci si recava per nutrire i maiali con avanzi di cibo e crusca mescolati, la vrurata, tramite un secchio che veniva svuotato nella vaschetta appositamente sistemata nel trogolo.

E’ un fatale do ut des, anche se, quando si getta sul pastone, il vorace maiale arrivato al peso perfetto non sa che farà la stessa fine e con gli interessi perché del porco non si butta nulla – espressione che nelle comunità rurali evocava la necessità di conservare ogni opportunità alimentare offerta dalla bestia in vista del rigore dei mesi invernali. Il maiale infatti, come dicevamo, si macella a gennaio, anche in considerazione di un ambiente climatico proficuo per la conservazione dei salumi (nel territorio cosentino dicono “dopu li puarci”  come riferimento temporale per indicare l’inizio di febbraio). I vecchi sentenziavano che “chi si sposa è felice un giorno, chi ammazza il maiale è felice un anno”, perché la provvista di carne sarebbe durata fino al gennaio successivo.

L’uccisione del maiale è un rito laborioso, che coinvolge uomini e donne con compiti precisi. I primi ovviamente dovranno ammazzare la bestia.  Tutto inizia all’alba: il porco, catturato con una corda al collo, è disteso su una panca a listini (in modo che il sangue coli sul pavimento e si possa raccoglierlo) e lì con coltelli affilati, gli scannaturi, gli viene tranciata la giugulare.

Secondo una leggenda pulp il macellaio si rivolgerebbe al maiale con incitamenti degni del più ispirato Genny Savastano, esortandolo a jettare u sangu. Un’operazione che richiede fegato e resistenza alla ribellione virulenza del maiale – i bambini, che pure nelle vecchie comunità contadine erano membri sociali a pieno titolo, si tappavano le orecchie per non far udire i grugniti della spaventosa agonia, e chi tra gli adulti fosse timoroso, partecipava con un’azione simbolica quanto inutile, tenere la coda dell’animale. Contemperando la tradizione, l’obiettivo e la pietà, oggi la pratica con corde e coltelli è vietata dalle autorità sanitarie: per uccidere i maiali bisogna usare l’apposita pistola che stordisce la bestia affinché durante il taglio non senta dolore.

Caddara frittole e sanguinaccio, non si butta niente 

Ma se fin qui avete mantenuto stabilità fisica ed emotiva, il lato più scioccante della tradizione per molti è la fuoriuscita delle interiora e la loro rimozione, e poi la solenne cottura nella caddara o, come da lascito etimologico arabo, qaddara. Origine ed essenza della golosità delle frittole della festa di Madonna è il citato adagio popolare secondo cui ogni parte del generoso maiale va conservata e fruita. Compresi gli scarti, che diventano i saporiti e nutrienti ciccioli con cui si rimpinzano i panini che a Roma appellano “ignoranti”.

Da noi però c’è anche una competizione impossibile con un inarrivabile contendente, il pescespada, divenuto (insieme al polpo nelle vicine Puglia e Sicilia) protagonista glamour di apericene e cibo volante: in una sfida tra panini, il cavaliere dei mari sarà sempre quello figo, il satizzo quello dei poveri (ma ugualmente belli). Resta l'orgoglio della sapienza. Come per le latine amatriciana e carbonara, il reggino - salvo essere vegetariano e dunque non ferrato della materia - è intenditore nel riconoscere la vera frittola cucinata come tradizione comanda, e le imitazioni che barano sui passaggi ineludibili della caddara. Ai frettolosi si ricorda che "u porcu è a muntagna e a caddara bugghi", detto popolare che si riferisce a comportamenti troppo precoci rispetto a una data situazione, ma in questo caso potrebbe anche essere un invito ad agire rispettando tempi e modi della tradizione.

Ed ecco la caddara, dove si raccolgono, seguendo un ordine rigoroso di estrazione, tutte le parti che fino a poche ore prima componevano il rotondo maialino vivo e grufolante. Il pentolone di rame (ma oggi si usa quasi sempre l'acciaio), accuratamente pulito dalle donne di casa usando una pietra detta strolaghu, viene foderato di appiccicosa sugna e poi riempito con gli altri organi e ossa, concludendo con la pancia.

Un rito quasi scomparso prevedeva che al fondo della caddara fossero lasciate due forchette sistemate a forma di croce, in segno propiziatorio. A proposito di religione, fino a qualche decennio fa i cappuccini di Sant’Antonio Abate – spesso ritratto in compagnia di un maialino - nel tempo della caddara lasciavano fuori dalle porte delle case dei pentolini di creta che poi tornavano a prendere sapendo di ritrovarli riempiti dello strutto solidificato essudato dal corpo dell’animale.

In effetti è roba che tocca le budella, e di tutti i soggetti coinvolti. Psicologicamente molti calabresi ne operano un’inconscia rimozione, identificando questi riti contadini con violenza e inciviltà. Lo ha sperimentato la food blogger Annalisa Oppedisano, 37enne originaria di Portigliola e residente a Vienna, da dove si occupa di cibo e cultura calabrese con la pagina “Torte di nuvole”. Un suo video realizzato insieme agli anziani del paese, in cui si mostrava la preparazione della caddara, ha suscitato reazioni di disgusto e riprovazione.

La cottura avviene con ritmi lenti su una brace di legno o carbone continuamente attizzata, e versando acqua calda filtrata attraverso un panno di lino. La caddara attira gli strali disgustati di chi sente rivoltarsi le viscere al pensiero che ogni particella del caro estinto suino, trattata a mani nude, sia poi consumata, compreso il sangue, bevuto per festeggiare l’uccisione e inoltre ingrediente di un dolce colloso, il sanguinaccio.

Chi ha più di sessant’anni potrebbe ricordare di averlo assaggiato da bambino, portato in dono da amici proprio durante la festa della Madonna della Consolazione, quasi mai sapendo cosa fosse quella gelatina di colore rosso scuro dove si avvertiva (ed effettivamente c’era) l’aroma del cioccolato. Qualcuno testimonia quell’esperienza come uno choc, rafforzato dagli studi medici sui rischi del suo consumo (ma lo aveva già detto nel ‘500 l’astronomo cosentino Rutilio Benincasa parlando di gran mangiate di carne suina, consigliando tuttavia non di astenersi ma di ammortizzare il bombardamento di grassi bevendoci sopra del vino).

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