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Giornata della memoria e dell'impegno / Bruzzano Zeffirio

La storia di ribellione di Caterina Liberti, uccisa per aver sfidato l'omertà

Domani, un giorno dopo la giornata dedicata alle vittime di 'ndrangheta, ricorre l'anniversario della morte della contadina di Bruzzano Zeffirio, che aveva denunciato un abigeato

Nella giornata di oggi, in cui saranno letti e ricordati i nomi dei caduti per mano della mafia, la memoria di alcune vicende si trasformano in monito e speranza di cambiamento. Una di queste racconta la brutale fine di Caterina Liberti, morta il 22 marzo 1976, domani saranno trascorsi 47 anni da quel delitto ancora impunito. Ed è una vittima senza volto perché non sono rimaste immagini pubbliche di questa contadina di Bruzzano Zeffirio uccisa con la modalità più prepotente della 'ndrangheta, la punizione inflitta a chi osa rompere il muro del silenzio e ribellarsi. 

Il furto delle capre e la denuncia ai carabinieri, un atto mai visto prima

La storia di Caterina è esemplare, il sacrificio di una giovane vita come simbolo di coraggio contro l'arroganza e il potere mafioso. Aveva 36 anni quando fu bersaglio di un agguato nella piazza principale del suo paese, la sera del 19 marzo 1976: colpita da una raffica di fucilate davanti agli occhi della madre, che era con lei, sopravvisse e fu trasportata all'ospedale Evoli di Melito, dove morì dopo tre giorni di agonia e nonostante un complicato intervento di amputazione del braccio. 

La sua colpa era stata denunciare l'abigeato subìto con il furto di quattro capre, gli animali che costituivano il mezzo di sostentamento della famiglia nella campagna della frazione Motticella. Le cronache dei giornali e le testimonianze raccolte, in particolare, dall'associazione DaSud nel volume "Sdisonorate - Le mafie uccidono le donne", raccontano che per Caterina la matrice della scomparsa delle quattro capre era stata subito chiara e ricondotta alla criminalità che operava nel contesto rurale dell'hinterland calabrese. E aveva intuito anche chi fossero i responsabili, tanto da andare - lei, una donna sola e senza protezione - nella casa dei malavitosi a chiedere la restituzione di ciò che le apparteneva. Aveva paura, Caterina? Sì, come chiunque, ma la responsabilità verso la figlia e il sogno di garantirle un futuro diverso era più forte. Senza quelle capre, e senza gli altri furti che sarebbero seguiti, la sua famiglia non avrebbe più avuto da mangiare. 

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Caterina Liberti era abituata a sfidare il suo piccolo mondo, un ambiente ostile alle donne che osavano uscire dalle griglie sociali costruite per loro da secoli di patriarcato, ancor di più nei feudi della 'ndrangheta. Poco più che ventenne si era abbandonata a una fortissima passione e quell'amore le aveva lasciato addosso una gravidanza indesiderata dall'uomo - uno del paese, conosciuto da tutti - ma portata avanti ugualmente dando alla luce una figlia. In paese era bollata con la disdicevole etichetta di madre nubile, invece nella sua famiglia edificò un matriarcato che aveva radici nello spirito femminile della Magna Grecia ed era pioneristico di una modernità impensabile per quei tempi e quei luoghi: un nucleo affettivo e di legami di sangue composto da lei, la madre e la figlia, dove il capofamiglia era una donna responsabile delle altre due, che lavorava la terra e governava il bestiame con una sapienza antica e la destrezza pratica di un uomo.

Dava fastidio quel regno di armonia femminile? Nelle campagne di Motticella una donna non sposata diventata madre, per l'opinione collettiva avrebbe probabilmente dovuto avere un comportamento più remissivo e defilato, invece Caterina si occupava dei campi e degli animali e commerciava la carne che pochi giorni dopo la sua morte sarebbe trionfalmente apparsa sulle tavole dei compaesani in occasione della festa dell'Annunziata, nelle zuppiere dei tradizionali maccheroni al ragù di capra. O forse non era una questione di onore ma di interesse. Il comune della Locride dove viveva Caterina pochi anni dopo sarebbe stato insaguinato da una lunga faida, e anche lì la 'ndrangheta prosperava sul business, doveva difendere i suoi proventi affaristici. Quella donna era una concorrente e il furto delle capre una sorta di risarcimento, una subdola riscossione di un pizzo che non serviva neanche scomodarsi a chiedere. 

Archiviate le indagini, il delitto di Caterina è rimasto impunito

Caterina però, pur avendone le qualità, non era un'imprenditrice. Senza gli animali avrebbe fatto la fame e soprattutto temeva la miseria per la figlia, all'epoca quattordicenne, alla quale, dopo averla voluta caparbiamente, era legatissima. Dopo il fallimento della trattativa con coloro che riteneva responsabili del fatto, decise di compiere quel passo coraggioso e ammirevole che avrebbe segnato la sua condanna a morte. Andò dai carabinieri a denunciare il furto e sembra che fece persino quei nomi, di cui aveva certezza. Una cosa del genere a Bruzzano non s'era mai vista e fece ancora più scalpore che l'iniziativa provenisse da una donna. Che non era una stupida anche se non aveva studiato (e per questo, con il duro lavoro agricolo, voleva consentire la prosecuzione della scuola all'amata figlia, che frequentava la terza media): le investigazioni dei carabinieri parlarono di un depistaggio tentato dai malavitosi per confonderle le idee, ma lei non si era fatta ingannare anzi fu capace di circoscrivere il reato in modo troppo preciso e rischioso. 

La sera del delitto Caterina e la madre tornavano dai campi e chi avrebbe sparato prima la chiamò per nome, come si fa nel codice criminale per decretare il momento del giudizio, senza scampo. I proiettili dilaniarono il braccio della donna, che dovette essere mutilata, ma quelli che la raggiunsero al torace furono fatali. Morì il giorno dopo la primavera, in ospedale e fu l'unica battaglia persa, troppo impari persino per una combattente come lei. 

Nè il killer né i mandati furono mai individuati e le indagini furono archiviate per mancanza di prove. Continuare a ricordare quello che accadde a Caterina Liberti è l'unico modo che abbiamo di renderle giustizia e ringraziarla per la sua ribellione. Questa contadina che non ebbe paura di denunciare un'ingiustizia insegna soprattutto ai più giovani che per opporsi alla 'ndrangheta qualcuno deve essere la freccia che scocca dall'arco e non può più essere fermata.   

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