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Cronaca

Operazione "Perfido", i calabresi "maliziosi" e la politica per fare soldi senza grandi rischi

Dalle intercettazioni dell'inchiesta dei Carabinieri del Ros emergono le "infiltrazioni del tessuto sociale" curate grazie ai collegamenti con la "casa madre" calabrese: "sopra i calabresi sono un macello. Comandano tutto loro"

Un territorio vergine, pulito, dove la criminalità era una cosa vista in televisione. Il Trentino, secondo quanto emerso nell’inchiesta “Perfido” dei carabinieri del Ros, guidati dal generale Pasquale Angelosanto, era diventata la terra promessa della ‘ndrangheta, dei reggini che sentito l’odore dei soldi hanno scelto quel territorio poter farci affari lucrosi. 

Sono le intercettazioni, confluite nel fascicolo d’inchiesta curato dagli uomini del generale Pasquale Angelosanto, ad aprire questo spaccato investigativo: “sono saliti a Trento, una città bianca senza malizia, i calabresi maliziosi quando hanno visto che non girava droga e cose....hanno fatto soldi della madonna. Dice che i trentini non potevano immaginare che un cristiano potesse fare imbrogli come (facevano) quelli lì….”.

Le cimici piazzate dai carabinieri del Ros non fanno altro che confermare quello che, da anni, i magistrati calabresi sostengono e, cioè, che la ‘ndrangheta i veri affari li fa lontana da casa, al riparo da occhi ed orecchie indiscrete, in quelle terre che, sino a ieri, non erano mai entrate in contatto con questo fenomeno, che se ne sentivano esenti.

I responsabili di tale insediamento sono soggetti che spesso sono stati costretti ad abbandonare i paesi di origine, vuoi perché nel mirino di cosche rivali, vuoi perché trovatisi sotto la pressione delle forze dell’ordine e che hanno individuato in questa provincia il territorio fertile in cui radicarsi ed in cui investire le proprie risorse economiche, spesso di dubbia provenienza, facendole fruttare con attività per lo più illecite.

Peraltro gli stessi non hanno mai cessato di mantenere i legami, con le zone calabresi di provenienza e con esponenti della criminalità espressione di quel territorio, in particolare delle ‘ndrine di riferimento individuate in quelle dei Serraino, degli Iamonte e dei Paviglianiti, di fatto costituendo una estensione dell’associazione ‘ndranghetista calabrese.

Per ottenere i propri obiettivi, il gruppo criminale sgominato dal Ros, non si faceva scrupoli di piegare la politica, infettandola dall’interno, ai propri desiderata. Un'infiltrazione nel tessuto economico dell’area effettuato non "manu militari” ma attraverso quella che i magistrati hanno definito: “l’infiltrazione del tessuto sociale”.

“Quasi inevitabile - si legge nelle carte dell’inchiesta - era che nel mirino degli indagati si ponesse una delle risorse tra le più ricche di quest’area geografica, ovvero le cave di porfido della Val di Cembra, tipologia di pietra particolarmente pregiata e ricercata, non a caso definita “oro rosso” ed in effetti gli inquisiti sono arrivati, nel tempo, ad acquisire il monopolio locale nei settori dell’estrazione e lavorazione del porfido, nel contempo riuscendo a conseguire cariche istituzionali sia nell’ambito amministrativo che in quello della politica locale, ricoprendo ruoli strategici nei consigli comunali e nelle Asuc nonché condizionando elezioni e scelte delle amministrazioni locali”.

La politica  come chiave di accesso alla crescita economica, la politica che, troppo spesso, si presta a questi giochi e non si fa scrupolo di chiedere il supporto elettorale della ‘ndrangheta. Un rapporto intenso anche lontano dalla “casa madre” dove il potere criminale è cresciuto nell’ombra così tanto da far dire ad alcuni dei soggetti intercettati che: “sopra i calabresi sono un macello. Comandano tutto loro”.

Un rapporto cresciuto sull’asse Trento-Roma-Reggio Calabria-Melito Porto Salvo, grazie ai contatti e alle conoscenze vantate da parenti ed amici, con i “colletti bianchi” capaci di entrare ai piani alti della politica romana per fare incontri “dove c’era la politica, c’era la malavita e c’era l’imprenditore”.

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