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Cronaca

Maurizio Cortese gestiva la cosca dal carcere dove poteva disporre di un cellulare

Gli investigatori della Squadra mobile hanno ricostruito anche il ruolo di "postina" della moglie del giovane boss che riceveva istruzioni durante i colloqui nella casa circondariale

L’inchiesta “Pedigree” ha messo in luce i canali di comunicazione usati da Maurizio Cortese  per guidare la cosca dal carcere in cui era stato recluso dopo l’arresto del 2017. Per gli investigatori della Squadra mobile, diretti da Francesco Ratta, il giovane boss sarebbe riuscito a gestire dal carcere gli affari illeciti della cosca attraverso i colloqui con la moglie Stefania Pitasi e le comunicazioni epistolari con altri affiliati, nonché con l’utilizzo di apparecchi telefonici cellulari introdotti abusivamente all’interno della struttura carceraria. 

Per i magistrati della Direzione distrettuale antimafia, infatti, pur essendo detenuto Maurizio Cortese avrebbe continuato a svolgere le sue funzioni di capo cosca, impartendo direttive dal carcere per eseguire estorsioni, per ordinare danneggiamenti di esercizi commerciali, per imporre la fornitura di beni e per pianificare intestazioni fittizie di attività commerciali. 

Dall’indagine sono emersi diversi elementi che dimostrano come il capo cosca avesse a disposizione in carcere un telefono cellulare - rinvenuto il 9 aprile 2019 dalla Polizia penitenziaria - con il quale riusciva a comunicare riservatamente con l’esterno e ad impartire disposizioni alla moglie la quale si prestava a fare da postina e ad altri sodali, con l’uso di un linguaggio criptico ma attinente alle dinamiche e alle attività delittuose della cosca di cui continuava a tenere le redini nonostante lo stato di restrizione. 

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