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L'informativa

"Ndrangheta stragista", quando le "valigette di Stato" pesavano più delle leggi

Dalle carte dell'informativa depositata dalla procura generale agli atti del processo d'appello contro Graviano e Filippone emerge uno spaccato della storia repubblica segnato da componenti deviate dei servizi in rapporto con i boss

Ci fu una stagione della storia repubblicana in cui le “valigette di Stato” pesavano di più delle scelte legislative assunte in Parlamento. Di quella stagione, incastrata temporalmente nei primi anni novanta, la ‘ndrangheta ne fu protagonista principale e secondaria, recitando il ruolo di Stato e anti Stato, finendo - come si legge nelle carte della voluminosa informativa depositata agli atti del processo di appello “Ndrangheta stragista” dalla procura generale di Reggio Calabria, rappresentata in aula dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo - per giocare un ruolo decisivo “sul delicato tema dei riscatti e della fallimentare novella legislativa sul cosiddetto blocco dei beni bypassata dalla valigette di Stato”.

Lo Stato, o meglio chi ne gestiva la cosa pubblica in quegli anni, voleva chiudere ed in fretta la delicata e rischiosa partita dei sequestri di persona. Il sequestro di Roberta Ghidini fu la cartina di tornasole di una nuova “strategia”: quella di mediare con la ‘ndrangheta, a suon di quattrini da spartire fra informatori, capi cosca e pezzi deviati dei servizi segreti, per mettere fine all’odiosa pratica dei sequestri di persona.

Furono anni di operazioni “brillanti” di liberazione, furono gli anni in cui la “Falange armata”: uno strumento ibrido creato a fretto dai servizi deviati e messo in mano del boss nazionale della ‘ndrangheta Domenico Papalia, sarebbe apparsa sulla scena italiana, pilotando dalle retrovie la gestione di questa delicata operazione e, nella ricostruzione dei magistrati della procura reggina, di altre fasi destabilizzanti della storia patria come quella legata alle bombe di cosa nostra.

E’ il pentito Antonio Schettini, i cui verbali sono parte integrate dell’informativa curata dalla Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria, a spiegare come funzionavano le cose. “La Falange armata era stata proprio creata per sopperire alla mancanza diciamo degli approvvigionamenti derivanti dai sequestri di persona”.

Pagamenti che, stando alle parole del collaboratore di giustizia napoletano ma in stretti rapporti con i boss della ‘ndrangheta, “non sempre sono stati effettuati dalle famiglie, era lo Stato che pagava nei riscatti, di cui una buona parte venivano divisi. Riscatti da un miliardo i sequestratori prendevano 550, gli altri 500 li prendevano questi apparati che servivano per finanziare altre attività, venuto meno questo bisognava creare qualcosa, un diversivo dove attingere dei fondi con la nascita della Falange armata”.

Fondi neri “per alimentare altre esigenze deviate”, prima incamerati con la gestione occulta dei sequestri di persona, che avevano bisogno di trovare una nuova fonte di finanziamento.

E la risposta di Antonio Schettini alla domanda del magistrato che lo sta interrogando nel novembre del 1996 chiarisce ancora di più il senso della vicenda: “C’è tutta una serie di costellazioni dietro, dopo c’è tutta una serie di apparati dello Stato che si muovono per causa di questa sigla che è venuta fuori, quindi abbiamo sovvenzioni, finanziamenti, abbiamo instaurazione do nuovi gruppi di lavoro, nuovi settori da incanalare”.

Abbiamo un apparato deviato che si muove dietro le quinte della storia Repubblica, che traffica con la criminalità organizzata, che entra in carcere per parlare con i boss sera lasciare traccia come una “farfalla”, che paga e riceve sovvenzioni, che sta attraversando la storia dell’Italia dagli anni novanta ai giorni nostri senza lasciare traccia evidente di se e del suo passaggio.

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