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Politiche 2022

"Votare? Per chi? Per che cosa?": la parola all'ex assessore Pellicanò

A poche ore dal voto, la riflessione del rappresentante comunale della giunta della Primavera: "Affidarsi ai meno peggio, questo ci chiede l'attuale legge elettorale, vuol dire creare un baratro intorno ai valori del libero arbitrio, perdendo il sapore e il gusto della libertà"

"Votare? Per chi? Per che cosa?", sono gli interrogativi che si pone Demetrio Pellicanò, ex assessore della giunta del sindaco Italo Falcomatà, in vista di domenica 25 settembre, unica giornata di chaiamata al voto per il rinnovo di Parlamento e Senato.

Riportiamo di seguito e integralmente la riflessione dell'ex rappresentante comunale della Primavera reggina. "Siamo alle ultime battute di una campagna elettorale, che tristemente stanca si trascina verso un epilogo annunciato, scontato, ampiamente previsto e prevedibile. La domanda che si rincorre di bocca in bocca, fino a diventare ossessiva come un mantra è :ha ancora un senso andare a votare?

Ad una siffatta domanda, complessa, sofferta, problematica, si risponde rozzamente, adducendo speciosi motivi di ordine etico, morale. Se tu, si dice, ti disimpegni, se ti dimetti dalla politica, sarà la politica ad occuparsi di te, saranno gli altri a decidere il tuo futuro. Come sempre, quando strumentalmente si tenta di raddrizzare le gambe ai cani si riduce ciò che è complesso, articolato, multiforme, dalle mille sfumature ad un'irridente banalità.

Perché, in questi ultimi decenni, è stata forse la sovranità popolare a dare indirizzi, orientamenti, spunti decisionali alla politica? O, non è stato il palazzo, cieco e sordo, ad imporsi schiacciante e parziale sulla carne viva del Paese? Per chi proviene dal riformismo cattolico, dal cristianesimo sociale, la domanda assume toni ancora più stringenti, più soffocanti.

Gli antichi greci usavano il termine aporia per descrivere un ragionamento dibattuto, stretto tra le maglie di due logiche contrapposte, stridenti, ma entrambe valide, entrambe cogenti. Un tempo le campagne elettorali avevano una connotazione sacrale, ancorché accese, dialetticamente aspre, a volte al limite dello scontro fisico. Ma sempre cariche di passione civile, di nuove frontiere, di suggestivi orizzonti da esplorare e conquistare.

Erano gli anni in cui la politica attraversava osmoticamente le coscienze e il ricorso alle urne segnava il punto più alto, più sublime della democrazia rappresentativa e della partecipazione popolare. Nell'angusto perimetro di una cabina elettorale ti sentivi sovrano, la matita era il tuo scettro e quella scheda in mano pesava come un macigno.

Il tuo destino, quello dei tuoi figli, dipendeva da te e dalla tua capacità di separare il grano dal loglio. Oggi, nessuno attende più con trepidazione il responso del voto. È stato già tutto deciso, tutto pianificato, tu sei chiamato solo a ratificare. Conta poco, anzi per nulla, conoscere la vita, la storia, le competenze dei candidati che ti propongono. Sono gli apparati, le burocrazie, i funzionari dei partiti a sostituirti nel giudizio della cabina. Questo è solo un aspetto della tentazione di scappare dalle urne, dalla partecipazione al voto.

L'aggravante è ancora più pregnante, più urticante, più oltraggiosa e riconduce all'offerta politica, ai programmi, alla credibilità dei partiti ad acquisire ed organizzare il consenso.

Il centrosinistra a trazione Pd, ormai, è una formazione che naviga a vista, arroccato su posizioni dominanti, asserragliato nelle stanze del potere, strenuamente impegnato a difenderlo con le unghie e con i denti. Il Pd vive una sorta di dannatio memoriae. Se la Repubblica è nata in montagna, come ci ricorda P. Calamandrei, la genesi del partito di Letta va ricercata nella lotta dei braccianti, delle fabbriche, degli studenti, delle università, nel riscatto degli umili e dei vinti.

Oggi, il Pd ha perso il polso dell'esclusione sociale, non sente più il battito dell'emarginazione, delle periferie, della disperazione, lasciando Papa Francesco solo a gridare il dolore, la rabbia, la rivolta degli ultimi. Il popolo della sinistra scappa dal voto, perché il Pd è scappato di casa, abbacinato dal fascino dell'establishment, dai salotti bene, dal forte richiamo delle elites finanziarie.

E il centrodestra o la destracentro? Si candida a governare il Paese con la pretesa di rappresentare il nuovo che avanza, magico e dirompente. Una forza, convinta di interpretare e ascoltare le nuove generazioni, che saprà parlare all'Europa con autorità e sapienza. Non deve ingannarci la memoria. Per Giorgia Meloni, leader indiscussa ed indiscutibile di questo schieramento, quella che sta per aprirsi sarà la V legislatura: in politica, un'era geologica. E i suoi uomini più rappresentativi sono gli stessi che nel 2011, una crisi fra le più acute della nostra storia, portarono il Paese sull'orlo del default, con lo spread che schizzo' oltre i 500 punti.

Sono convinto, ne ho la certezza, che la vittoria della Meloni non comporterà alcun rischio di fascismo, per fortuna, Annibale non è alle porte della nostra democrazia. Il rischio è nelle competenze, nei saperi, nella visione che si ha del mondo, dell'uomo, della società. Il rischio è saper parlare all'Europa, alle cancellerie internazionali, ai mercati, saper cavalcare la globalizzazione.

Sic stantebus rebus si dovrebbe optare per il male minore o turarsi il naso. Cosa che io non farò. Affidarsi ai meno peggio, questo ci chiede l'attuale legge elettorale, vuol dire creare un baratro intorno ai valori del libero arbitrio, perdendo il sapore e il gusto della libertà".

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