Giornata della memoria 2021, per non dimenticare
"In occasione del giorno della memoria, ho immaginato la storia della bambina del film Schindler's list di Steven Spielberg "Esseri umani come noi"
Era un giorno nuvoloso. Non faceva tanto freddo ma quel tanto che basta per prendere di nascosto dall'armadio il mio nuovo cappotto rosso. Non vedevo l’ora di indossarlo, e quello mi pareva proprio il giorno giusto per farlo. La mamma non c’era ma non si sarebbe arrabbiata…. me lo ripeteva sempre “Devi coprirti bene, Roma. Non prendere freddo che poi ti viene il mal di gola e non potrai giocare con la neve quando cadrà.” A me piaceva tanto la neve, qualche volta la mangiavo e la facevo sciogliere piano piano in bocca. Eh sì, come un gelato! E a me piaceva tanto il gelato, solo che non ne avevo mai visto uno. A casa c’era un disegno fatto da mamma che descriveva com’era fatto. Lei sì, lo aveva mangiato tanti anni prima. Beata lei! Camminai per un po’ nel ghetto di Cracovia cercando di incrociare qualcuno che potesse dirmi che avevo un bellissimo cappotto. Mica facile… La gente andava di corsa, senza guardarsi intorno. Parevano tutti nervosi o preoccupati, come se avessero fatto un brutto sogno quella notte. Trovai il mio grande cugino seduto accanto alla fontana. Lui era sempre allegro con me, ma quel giorno pareva triste e fissava l’acqua scendere. “Stai contando le gocce, David?” “Ciao, Roma. Sì, hai indovinato, le sto contando. Sento che non avrò tempo per rivederle… e mi va così.” “Ci chiuderanno ancora l’acqua?” Ebbe un piccolo scatto di meraviglia, poi sorrise. “No! Non chiuderanno l’acqua oggi, Roma. Verranno a prenderci e ci porteranno via.” “Che t’inventi David?” “Fidati. Non vedi?”, e si voltò in direzione del muro “Lo sanno tutti.” “E… dove andiamo?” “Non lo so ma non credo molto lontano.” “Meno male, David, almeno potremo tornare presto a casa.” “Sì, torneremo presto. Forse torneremo presto.” Lo lasciai a fissare le sue gocce. Non riuscivo a capire cosa avesse ma non m’importava in quel momento, prima di tornare a casa dovevo trovare qualcuno che si accorgesse del mio cappotto nuovo. Camminai a lungo, con le mani in tasca e lo sguardo teso all’altezza dei grandi. Ero quasi arrivata al negozio di stoffe, all’ingresso del ghetto. Vidi un camion grandissimo sfondare il portone ed entrare. Altri camion e camionette lo seguivano. Erano zeppi di soldati tedeschi. Mi bloccai e abbassai lo sguardo. Papà lo diceva sempre... “Non guardare mai negli occhi i soldati tedeschi, Roma!” “Perché?” domandai una volta. “A loro non va… E bisogna rispettarli. È l’unico modo che abbiamo per ricordare loro cosa significa essere uomini. Hanno fatto cose orribili, ma sono esseri umani proprio come noi, solo che non se ne accorgono.” Dopo qualche minuto alcuni spari mi fecero alzare la testa. Vidi una lingua di fumo alzarsi verso la casa di zia Dafne. Due ragazzi sbucarono all’improvviso da dietro un vicolo. Correvano verso di me, verso il cancello, poi raffiche di scoppi e caddero a terra. Erano forse inciampati? Il sangue che vedevo mi diceva che si erano fatti tanto, troppo male. Mi avvicinai, pareva dormissero con gli occhi aperti. “Cosa ci fai qui? Vai subito verso la piazza, piccola bastarda ebrea” , gridò un soldato. “Si signore, vado subito!” Seguii il tedesco con la testa bassa ricordando le parole di mio padre. Avevo una gran voglia di piangere in braccio alla mamma. Ogni tanto provavo ad alzare gli occhi per cercarla intorno, poi vidi la famiglia di zio Valerio al completo sul terrazzino dell’appartamento che dividevano con i Sagall. Erano tutti serissimi. Provai a salutarli con la mano mentre un gruppo di soldati entrava dal portone della loro casa. Dovevano essere preoccupati per qualcosa, forse dalle impronte di fango che gli stivali dei tedeschi stavano lasciando sulle scale appena pulite, perché non mi risposero. Fu un attimo. Scavalcarono e si lanciarono dal terrazzo tutti insieme. Avevano provato a volare per non essere presi ed erano… erano tutti morti. Restai con gli occhi chiusi fino alla piazza, la pancia mi faceva male. Sì, però, ogni tanto guardavo la strada, altrimenti sarei caduta. Passando sbirciai tante persone a terra che dormivano, in mezzo a quel sangue e quelle urla… e allora i soldati tedeschi sparavano colpi alle teste per paura che si svegliassero, che scappassero. Non capivo, c’era troppa confusione. Troppa gente, troppe voci. Sentivo che stavo diventando grande. Non sorridevo più, non mi importava del mio nuovo cappotto rosso, volevo solo ritrovare la mamma. Mi fecero fermare sulla piazza, in mezzo a tanti uomini e donne. Non li conoscevo tutti. Le urla dei soldati, le parole così dure e scortesi che continuavano a lanciare, mi davano fastidio e non volevo più ascoltarle. Mi tappai le orecchie con le mani e cominciai con gli occhi a cercare mamma. Non la vedevo, non era lì, forse era in giro a cercarmi. Mi avrebbe sgridato? Improvvisamente vidi il suo vestito, lo indossava una donna sdraiata a terra. Sì, era proprio il suo vestito a fiori, lo indossava una signora che dormiva… Ma era la mamma…vicino a lei c’era… c’era il mio papà… Corsi loro incontro e mi ci lanciai sopra come quando giocavamo nella camera da letto. Dormivano così profondamente che non si accorsero che li stavo chiamando. Un soldato mi prese strattonandomi, mi fece molto male perché mi sbatté a terra. Guardai ancora i miei genitori dormire e il soldato, che non capiva cosa stesse facendo, come ripeteva sempre mio padre, mi diede un calcio. Mi girai e lo guardai fisso negli occhi. Dovevo essere molto seria perché lui ebbe un tentennamento e poi, con il suo mitra, mi fece cenno di andare con gli altri. Mi incamminai seguendo la colonna delle persone, i soldati erano di fianco e ci spronavano a camminare in fretta senza avvicinarsi, parevano provare ribrezzo per noi. Fuori dal ghetto c’erano degli altri camion e un soldato tedesco, che forse sapeva quello stava facendo, mi prese in braccio e mi poggiò sul cassone. In quel camion c’erano persone con gli occhi vitrei, donne e bambini come me che piangevano. Io Non riuscivo a piangere, mi sarebbe piaciuto farlo ma i miei genitori si erano addormentati e non sentivo nessuno nostalgia della mia casa. Arrivati, lo stesso soldato mi aiutò a scendere dal camion. Non c’era una città in quel posto, eravamo arrivati in una campagna che non aveva nemmeno un albero. C’era però una grande, grandissima buca… forse doveva piantarci degli alberi e dovevamo lavorarci tutti insieme perché ci portarono dentro a quella buca. I soldati tedeschi si misero ai margini. Erano tantissimi soldati. Non ne avevo mai visti così tanti. Erano armati ed eccitati. Aveva ragione il mio papà, erano proprio esseri umani come noi, soltanto che loro… non se ne accorgevano.
Orazio Santagati