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VIDEO| Dentro il porto un'area "sicura" dove nascondere i container pieni di cocaina

A carico dei narcotrafficanti anche la commissione, variabile tra il 7 e il 20% del valore del carico, tutte le comunicazioni venivano gestiste con telefoni cellulari criptati

La cocaina viaggiava dentro i container, nascosta dentro borsoni, che sulla carta custodivano parti di autovetture, mattoni o banane. Gioia Tauro, con il suo porto, era diventata una destinazione sicura. Sulle sue banchine, infatti, operava la "società di servizi" della 'ndrangheta. 

Una organizzazione che, secondo gli investigatori della guardia di finanza, era articolata su tre distinti livelli di soggetti coinvolti: esponenti delle principali famiglie di ‘ndrangheta, in grado di garantire l’importazione delle partite di cocaina in arrivo dal Sudamerica; coordinatori delle squadre di operai portuali infedeli che avrebbero retribuito la squadra con una parte della “commissione”, variabile tra il 7 e il 20% del valore del carico, ricevuta dai committenti (le dazioni ricostruite ammonterebbero ad oltre 7 milioni di euro); operatori portuali materialmente incaricati di estrarre la cocaina dal container “contaminato” e procedere all’esfiltrazione dello stesso verso luoghi sicuri.

Un gruppo su cui contare che, dentro al porto, aveva creato una sorta di area "sicura" dove stoccare i container pieni zeppi di droga per riuscire a fare uscire il loro carico fuori dal sedime portuale senza incappare negli occhi indiscreti degli investigatori.

Per evitare di correre rischi, poi, ai container venivano applicati sigilli contraffatti. mentre al container “uscita” veniva apposto un sigillo fasullo, predisposto dalla compagine criminale incaricata del recupero della droga.

Ogni comunicazione fra narcotrafficanti e referenti locali delle cosche di 'ndrangheta, naturalmente, avveniva attraverso telefoni cellulari criptati. Ma anche questo stratagemma non è valso a sfuggire alle indagini della guardia di finanza di Reggio Calabria, comandata dal generale Maurizio Cintura.

Indagini dalle quali sarebbe emerso che, dopo l’indicazione ai referenti locali da parte dei fornitori sudamericani del nominativo della nave in arrivo e del contenitore con la sostanza stupefacente, l’importazione passava sotto la supervisione dei dipendenti portuali coinvolti, i quali si attivavano affinché il container “contaminato” venisse sbarcato al momento opportuno e posizionato in un luogo convenuto.

Avuta la disponibilità dello stesso, la squadra di portuali infedeli provvedeva a collocarlo in un’area “sicura”, appositamente individuata, per consentirne l’apertura e, quindi, lo spostamento del narcotico in un secondo container (abitualmente indicato dagli indagati come “uscita”) ritirato, nelle ore successive, da un vettore compiacente e trasportato nel luogo indicato dai responsabili dell’organizzazione.

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