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Paola Suraci

Giornalista

La strada tracciata da Desmond Tutu può valere per la lotta alla 'ndrangheta?

E' morto a novanta anni il presidente della Commissione per la Verità e la Riconciliazione in Sudafrica contro l’apartheid

"Chi fa richiesta d’amnistia deve ammettere la propria responsabilità riguardo ai fatti che l’hanno spinto a richiederla: questo supera il problema dell’immunità. Inoltre chi richiede l’amnistia deve affrontare un’udienza pubblica, tranne casi assolutamente eccezionali: ciò significa che deve fare le proprie ammissioni di fronte a tutti. C’è, quindi, un prezzo da pagare: la pubblica confessione si traduceva in pubblica vergogna ed umiliazione e comportava, a volte, la fine di rapporti, di legami, di matrimoni. Noi ci riferiamo ad una giustizia che abbia a che fare con il ristabilimento di un’equità, con la ricomposizione di un’armonia e con l’importanza di una riconciliazione. Ci riferiamo ad una giustizia che sia focalizzata sull’esperienza della vittima e sulla conseguente necessità di un suo risarcimento, una giustizia che noi chiamiamo ristorativa".

Questo spiegava Desmond Tutu, presidente della Truth and Reconciliation Commission, la Commissione per la Verità e la Riconciliazione morto, ieri 26 dicembre, a novant'anni a Cape Town. È stato il volto sorridente nella lotta contro l’apartheid e ha scritto la storia del Sudafrica tanto che nel 1984 gli fu conferito il premio Nobel per la Pace.

Durante i suoi due anni di lavoro, dal 1996 al 1998, la Commissione ha raccolto oltre ventiduemila testimonianze in udienze quotidianamente trasmesse per radio e televisione che hanno permesso al Sudafrica di conoscere il proprio passato per poterne ricavarne una memoria condivise. Testimonianze pubbliche sotto forma di racconto orale delle ex vittime e degli ex aguzzini che hanno dato luogo a momenti di giustizia collettivamente partecipata. Ecco il cambiamento: una giustizia che parta dall’esperienza della vittima. 

Ciò sarebbe possibile in terra di mafia? 

Sarebbe possibile chiamare a testimoniare quanti hanno ucciso, violentato questa terra del sud, per confessare il male fatto, ed ascoltare il dolore di chi ha subito, e farlo diventare così memoria condivisa, coscienza di questa terra, del nostro popolo. Un cambio di visione che qui ci interessa sottolineare. Un racconto condiviso delle vittime per trovare una riconciliazione e ridare fiducia a questo territorio.

Sappiamo già che la memoria, di questo Sud martoriato dalla ‘ndrangheta, dalle mafie, non si sfibra. Resiste al tempo e diventa storia. Lo abbiamo visto con Lollò Cartisano, il fotografo sequestrato dalla ‘ndrangheta per non essersi piegato a pagare la mazzetta, nel luglio del 1993, i cui resti furono trovati dieci anni dopo nel luglio del 2003 in Aspromonte. Lo abbiamo visto con il ritrovamento dei resti di Placido Rizzotto, 64 anni dopo la sua eliminazione sancita da Luciano Liggio, il boss di Corleone, e da Cosa Nostra.

Ossa su cui piangere, ma non solo. Memoria di una terra che non vuole cedere alla violenza, al male e che vuole riappropriarsi dei fatti, per conoscere il proprio passato, e condividerlo. Solo così la mafia avrà perso, perchè la memoria è più forte della sopraffazione.

Certo nella lotta alla ‘ndrangheta, alle mafie, ancora c’è molta strada da fare e non possiamo solo pensare di fermarci a ricordare. Occorre andare avanti, colpire i clan e i loro affari, fare giustizia, insomma. Ma se riuscissimo a costruire in questo Paese una memoria condivisa, daremmo non solo la dignità alle vittime ma anche e soprattutto troveremmo la strada per il cambiamento. Sanciremmo la sconfitta delle mafie. 

Molte associazioni, da Libera in primis, lavorano proprio per costruire la memoria e quindi tracciare nuovi percorsi, ma resta sempre una separazione tra società civile e uomini di mafie, una separazione tra bene e male. Quello che fu la Commisione per la Verità e la riconciliazione fu un “mettere la faccia” , presentarsi davanti agli altri con il proprio carico di male e assumersi la responsabilità di quanto fatto e ascoltare il dolore di chi aveva subito quel male, un “guardarsi negli occhi” tra vittima e carnefice, tra giusti e malvagi. 

Primo Levi racconta, nel suo libro "Se questo è un uomo", di un sogno che periodicamente lo tormentava ad Auschwitz. Nel sogno egli torna a casa e cerca di raccontare a familiari e amici le sofferenze patite e ciò che ha visto ma si accorge, con angoscia, che nessuno lo ascolta: mentre parla gli altri chiacchierano tra loro come se lui non ci fosse. Un sogno ricorrente per tutti gli internati del campo, ricorda Levi, e si chiede: "Perché il dolore di tutti i giorni si traduce, nei nostri sogni, così costantemente nella scena sempre ripetuta della narrazione fatta e non ascoltata?".

Ecco, sta proprio qui il nocciolo della questione: ascoltare le vittime e restituirgli dignità, attraverso il loro racconto, la loro testimonianza. Ed allora in questa terra di ‘ndrangheta cosa accadrebbe se esportassimo quanto fatto in Sud Africa? Lì si combatteva un’altra guerra, quella dell’apartheid. Gli orrori e le violenze, la sopraffazione dell’uomo sull’uomo però sono uguali.

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