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Lo Stretto necessario

Lo Stretto necessario

A cura di Roberta Pino

L’equilibrio delle lucciole: un viaggio nell’io per fare ritorno nel luogo più intimo dell’anima, la casa

Alla scoperta dell’opera prima di Valeria Tron, presentata nella libreria Ave-Ubik, rivelazione letteraria del 2022

Di casa, di lingue, di memoria, di terra, di amore. Di questo e di tanto altro si parla nel libro “L’equilibrio delle lucciole”, prima opera letteraria di Valeria Tron, cantautrice, illustratrice, artigiana e, adesso, conclamata scrittrice. Originaria della Val di Germanasca, Valeria approda in riva allo Stretto per presentare la sua opera prima, anche se l’approccio alla scrittura risale all’età di sei anni e la prima canzone l’ha scritta a undici.

“Poesie e racconti brevi erano delle urgenze - afferma l’autrice - la poesia è qualcosa che ti strattona, non ti lascia il tempo di pensare, sei “della” poesia. Quando arriva, tu le obbedisci e le parole scivolano, sgorgano naturalmente”. E le parole di Valeria Tron incantano il pubblico nella storica libreria Ave-Ubik, sul corso Garibaldi, che ha promosso l’incontro coordinato dal giornalista Giusva Branca.

Pubblico accorso appositamente per ascoltarla ma anche chi passava da lì, non ha potuto fare a meno di rimanere
catturato dal suono delle sue parole. Cantautrice, pittrice e artigiana del legno. “Sono tutte grammatiche, ma non riuscivo ad immaginare quanto fossero dei linguaggi letterari”. E Valeria Tron fa della sua narrazione un quadro d’autore, con spennellate di colori, piene di vita e di sentimento, portando a Reggio Calabria il suo Piemonte, terra dove si svolge la trama del libro.

Trama

Dopo una delusione d’amore, Adelaide decide di tornare nel paese in cui è nata, un pugno di case di pietra tra le montagne aspre della Val Germanasca, una terra resistente dove si parla una lingua antica e poetica. Ad aspettarla, Nanà, novantenne custode della casa e della memoria. In una sorta di flashback tra passato e presente, il romanzo svela la storia d’amore di Levì e Lena, separati dalla guerra ma legati fino alla fine da un legame indissolubile testimoniato da lettere e diari.

Adelaide è lì per rifugiarsi nel respiro lungo della sua infanzia, negli odori familiari di bosco e legna che arde, dipanare le matasse dei giorni e ricucirsi alla sua terra: “fare la muta al cuore”, come scrive nelle lettere al figlio.

“Quei personaggi portano un sentimento cardinale - spiega Valeria - ed anche se è ignota la geografia, la lingua, la neve, il silenzio, i sentimenti risuonano”. L’anziana Nanà regala ad Adelaide un tuffo nel passato, “consegnandole la chiave di una stanza intima e segreta, (lo sgabuzino), che trabocca di scatole, scatoline che custodiscono - si legge nel libro - ganci calze, gucie da balia, fili ricamo. La delicatezza in piccoli scrigni. Ed ancora, libri ricuciti, contenitori e valigie, in cui la donna ha stipato i ricordi di molte vite, tra uomini, fiori, alberi e animali, acqua e tempo. Una biblioteca di esistenze, di linguaggi, gesti e voci, dove ogni personaggio è sentimento, un modo di amare”.

Tron Valeria libro-2Un libro frutto di uno scavo interiore - “Devo questo libro all’intuito, alla perseveranza di Maria Grazia Mazzitelli, direttrice editoriale di Salani - racconta l’autrice, (nella foto), - che ha visto in me qualcosa che io non riuscivo a vedere. Mi ha detto “è la tua casa (meizoun) interiore che devi scrivere, quella che ognuno di noi porta dentro, quella che si edifica con i sentimenti, con la memoria nuova, con le cose che raccogliamo, trasformiamo e sapremo cedere con la gentilezza. Ho preso coraggio ed ho gestato questo libro per circa diciotto mesi. Mi sono esplorata”.

Un'esplorazione che sembra uno scavo all’interno di una miniera. E non a caso suo papà era minatore. “In quel
momento ho dovuto essere minatrice di me stessa. Ho dovuto scavarmi, farmi brillare, cercare una vena nuova da confidare. Per fare questo non ero sola, quasi subito i miei sentimenti hanno preso forma umana e sono diventati Nanà, Levì e tutti i personaggi”.

E’ un libro autobiografico? “Anche se i personaggi non esistono realmente, quello è l’impasto integrale che
compone la donna Valeria, cioè la sua casa interiore, con i dolori, l’umanità fragile e forte come quella di tutti. Credo che da un lato mi augurassi proprio che ci fosse un riverbero, che trascendesse le generazioni, che oltrepassasse i confini e dimostrasse che non esistono, che portasse la lingua come metro di terra, come tutte le lingue di terra, quindi il sentimento, la terra dove si confida, e non il pensiero”.

Il patois e il significato delle parole - La lingua di cui parla l’autrice nel libro è il patois, il dialetto valdostano, con
elementi francoprovenzali, tipica di alcune vallate del Piemonte occidentale. “Esistono lingue che fanno pensare alla terra e lingue che te la fanno sentire”. Si sofferma, poi, sull’etimologia delle parole, come ad esempio “cura”. “I latinisti dicono che derivi da “cuore”, altri invece dicono, pensando al sanscrito, che sia la radice di ku-kav, che significa “la massima osservanza di”, ma ku-kav significa anche saggio.

Quindi tre chiavi di lettura per “cura”, cuore, la massima osservanza e saggio. Il patois è una lingua poetica, si nutre di immagini e “cura” ha a che fare con chi ha la massima osservanza del cuore. Cioè saggio è colui che ha la massima osservanza di ciò che vive. Ecco il nido del desiderio, la massima osservanza. Se io osservo attentamente anche la più piccola cosa, imparo ad averne cura. La vita vista così ha tutte altre prerogative! E la mia priorità non sarà più essere sempre perfetta, efficiente in un mondo che non lo è. Perché devo esserlo io? Voglio essere umana, voglio essere un animale empatico e libera di dissentire. E la Calabria è una terra che dissente e a me piace”.

Qual è il significato del titolo? “Almeno due sono le chiavi di lettura, la prima lineare, come fosse una storia e
l’altra intimistica, come se tutto quello scritto lì fosse metafora di quello che accade dentro di noi. La prima è certo una risposta a Pasolini che nel ‘75 scrisse La scomparsa delle lucciole, dove per lucciole si riferiva alla scomparsa delle culture, delle microculture non ancora omologate, non fortemente inserite nel capitalismo, che rimanevano ancorate alla terra con i riti, con i gesti.

Come per dire, guarda ci siamo ancora, se ci lasciano spazio di brillare, una luce sappiamo ancora farla. E questo vale non solo per la mia lingua, la mia microcultura, ma vale per tutte le lingue e le culture di terra, che in Italia sono una ricchezza fondamentale. E l’altra è la metamorfosi.

La lucciola è quell’animaletto, dal punto di vista etologico, che sta tre anni sotto terra, sverna lì, ha il suo tumulo, sente la neve, i passi, il tempo che passa ma si immagina qualcos’altro, sa che si esaudirà in qualcos’altro, non in una larva ma in un animale che incanterà il creato e quando esce da quel tumulo lo farà solo per amore. Un moto solo guida la lucciola, l’amore. Una metamorfosi rispetto all’uomo. Questo accade anche a noi, quando ci sentiamo compressi in una sacca e non riusciamo ad esprimerci, a fare luce”.

E quand’è che noi rinasciamo? “Noi siamo tutti nella possibilità di ripensarci nuovi e di esaudirci, ma se non ci
pensiamo luce, difficilmente brilleremo. Quando sentiamo il moto dell’amore, il moto primordiale della vita, in generale, quando sentiamo questo amore per la nostra famiglia, per qualcun altro, per noi stessi, in qualche modo emergiamo da quel tumulo che ci costringeva, che ci rendeva immobili e cominciamo a portare la nostra luce”.

Questo è l’equilibrio delle lucciole? “L'equilibrio è una ricerca costante. Di per sé non esiste, esiste immaginarsi
nuovi continuamente e quello ci dà un senso di equilibrio, perché nel mentre ci immaginiamo, ci ricomponiamo. Tutto quello che noi pensiamo, diventa concreto, le parole che noi diciamo sono già le intenzioni che anticipano le azioni. E quindi se noi ci sentiamo di voler rinascere, quello è il primo passo verso noi stessi. Siamo ogni giorno nuovi, nella nostra memoria, in quello che avevamo raccolto, in quello che sappiamo lavorare. La bellezza è vedere qualcosa di nuovo là dove pensavi di aver già visto tutto, è l’arte di vivere i nostri giorni e riuscire a ri trasformarli, a dare un senso. Ci modifichiamo continuamente, siamo in continua trasformazione”.

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Il rapporto con la Calabria

“Meraviglioso - afferma Valeria con enfasi - io sono una terrona del nord, anche soltanto per la mia cucina in casa, io pianto almeno quattro tipi di basilico, non vivo senza pomodori. Il mio paese è estremamente ospitale come questa terra. Mi trovo a casa qui, è sintonica.

Il migliore amico di mio padre era calabrese, una parte della famiglia di mio figlio è calabrese, di Longobardi, per me è famiglia. E poi la lingua, io adoro il calabrese, è musicale, per istinto riesco a capirlo bene ed anche per la storia che lega noi valdesi alla Calabria. Penso a Guardia Piemontese, che è una diaspora valdese che ha conservato il patois, l’occitano. Quanto è bella una lingua che cammina e poi si mescola, e queste due, mescolate insieme, hanno creato una cosa ancora più bella!”

Un libro è come una canzone - “C’è chi si aspettava che io componessi un nuovo disco, invece ho scritto un
libro, quattordici capitoli, quattordici canzoni. C’è tutta la mia orchestra che suona lì dentro - si avvia alla conclusione l’autrice - è l’orchestra delle parole, e non vale meno.

La parola è musica prima di essere forma scritta, perché non può essere musica un libro? La cosa importante è che ognuno di voi si senta libero in queste pagine, che le persone mi dicessero, “ci sono io qui”. Cambia il paesaggio, la lingua, ma i sentimenti sono tuoi quanto miei. E quindi tutti ci sono qua dentro. Può un libro fare questo? Non lo so, sicuramente fa compagnia. E dal momento che dividiamo il pane - compagnia significa dividere il pane - quello che è mio è tuo e quello che è tuo è mio. E se un libro fa un po’ di questo, ha già traghettato tantissimo di sé".

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