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Domenica, 28 Aprile 2024

Inchiesta "Rasoterra", ecco il gruppo criminale smantellato dalla Polizia | VIDEO

La figura centrale dell'inchiesta è Raso Filippo, attorno a lui giravano un paio di caporali del centrafrica, uno dei quali operativo anche a Caserta, e una rete di "collaboratori" italiani. Sequestrata l'azienda agricola intesta alla figlia di Raso

Alle prime ore della mattinata odierna, a conclusione di complesse e articolate indagini coordinate dalla Procura della Repubblica di Palmi, la Squadra Mobile di Reggio Calabria e il Commissariato di Gioia Tauro, coadiuvati dalla Squadra Mobile di Caserta e dagli equipaggi del Reparto Prevenzione Crimine, nel corso di un’operazione di polizia convenzionalmente denominata “Rasoterra", hanno dato esecuzione all’ordinanza di applicazione di misure cautelari emessa il 12 gennaio scorso dal Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Palmi, nei confronti dei seguenti soggetti ritenuti responsabili, a vario titolo, di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro in concorso (caporalato) e trasferimento fraudolento di valori in concorso.

Su richiesta della locale Procura della Repubblica, il Gip di Palmi ha altresì disposto il sequestro preventivo della ditta individuale intestata a Raffaella Raso, attiva nel settore delle coltivazioni agrumicole, olivicole, di kiwi e ortaggi, di fatto gestita dal padre Filippo.

I nomi degli arrestati

Le indagini - condotte dal Commissariato di Gioia Tauro, guidato dal Diego Trotta, e dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria, coordinati da Francesco Rattà, dal mese di giugno 2018 al mese di giugno 2019 sotto la direzione della Procura di Palmi - hanno consentito di far luce su alcune vicende di grave sfruttamento lavorativo nelle campagne di Gioia Tauro di numerosi migranti di origini subsahariana alloggiati nella baraccopoli di San Ferdinando, prima che venisse smantellata nelle giornate del 6 e 7 marzo 2019.

Dalle attività di controllo delle aziende e delle colture agrumicole in cui gli immigrati venivano impiegati come braccianti, dalle audizioni dei lavoratori sottoposti a sfruttamento e infine dalle operazioni di intercettazioni telefoniche condotte dagli Uffici operanti della Polizia di Stato, è emerso un contesto di assoluto rilievo criminale caratterizzato dal continuo verificarsi di condotte delittuose poste in essere da diversi soggetti della Piana di Gioia Tauro (datori di lavoro, caporali e faccendieri) consistenti quasi sempre nel reclutamento, utilizzazione, assunzione e impiego dei lavoratori extracomunitari a basso costo, allo scopo di destinarli al lavoro nei campi in condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno.

Ogni anno, da settembre a marzo e nel pieno della stagione agrumicola, giungono nella Piana di Gioia Tauro, specialmente nelle aree comprese tra Rosarno, Rizziconi e San Ferdinando, moltissimi migranti di origine centrafricana in cerca di lavoro come braccianti e vanno a popolare, in mancanza di diversa sistemazione alloggiativa, siti di fortuna, com’era da considerarsi la ex baraccopoli di San Ferdinando.

L’inchiesta ha portato alla luce elementi probatori chiari in merito alla sussistenza di un sistema organizzato di sfruttamento nel lavoro dei campi di numerosi immigrati africani che faceva capo principalmente a Filippo Raso, soggetto di elevata caratura criminale riconducibile all’alleanza di ‘ndrangheta, un tempo esistente, Piromalli-Molè, nonché dominus effettivo dell’azienda agricola intestata alla figlia, indagata nell’inchiesta “Rasoterra”, in cui lavoravano i migranti in condizioni di sfruttamento, che teneva continui contatti con icaporali e i faccendieri che operavano al suo servizio, impartendo loro direttive.

Filippo Raso è gravemente indiziato di essere stato a capo di tale sistema, imponendo comportamenti e fornendo direttive, minacciando e punendo chi non eseguiva i suoi ordini, ben sapendo di essere temuto ed ossequiato e di potersi avvalere di una strutturata rete di collaboratori per realizzare i suoi obiettivi.

Sono stati altresì ritenuti sussistenti dal Gip di Palmi gravi indizi di colpevolezza nei confronti di altri soggetti di cui Filippo Raso si serviva per realizzare l’attività di sfruttamento. Ibrahim Ngom, detto “Rasta”, era un caporale che gestiva per conto di Filippo Raso i lavoratori extracomunitari, si occupava di reclutare i braccianti africani e di controllarne il lavoro.

Kader Karfo, detto Cafù, era un altro fidato caporale di Filippo Raso. A lui era demandato il pagamento delle giornate di lavoro dei singoli operai di colore che erano impiegati nella raccolta degli agrumi, nonché il compito di guidare i furgoni a bordo dei quali venivano condotti i lavoratori nei campi.

Mario Montarello, invece, era un fedele faccendiere di Filippo Raso e, per gli investigatori, svolgeva l’importante ruolo di tenere i contatti con i caporali e controllare il lavoro degli extracomunitari.

Domenico Careri era un altro referente di Filippo Raso, per conto del quale si sarebbe occupato di reclutare manodopera, che talvolta provvedeva egli stesso a trasportare.

Francesco Calogero, invece, titolare di un’azienda agricola in stretto contatto con Filippo Raso, si sarebbe occupato di veicolare le direttive di Filippo Raso e dell’impiego di extracomunitari in condizioni di sfruttamento.

Pasquale Raso, poi, per gli investigatori affiancava il padre Filippo nei rapporti con i caporali, sia da minorenne sia dopo aver raggiunto la maggiore età. Oltre ad essere uno dei principali referenti del padre, dava direttive al caporale “Rasta” e pagava - a volte personalmente - i caporali e i lavoratori.

Giacomo Mamone, ancora, aveva il compito di fornire i mezzi per il trasporto dei lavoratori extracomunitari - per questo fine era in rapporto con il caporale “Rasta” - e curava la raccolta dei frutti.

Vincenzo Straputicari, non collegato con Filippo Raso, era in contatto con “Rasta" che reclutava per suo conto lavoratori extracomunitari che lo stesso Straputicari mpiegava nelle campagne della Piana di Gioia Tauro.

Filippo Raso risponde anche del delitto di intestazione fittizia di beni (in concorso con la figlia indagata a piede libero) atteso che dalle indagini è emerso che l’azienda agricola intestata a quest’ultimaera stata creata ad hoc per consentirgli di esercitare l’attività di impresa senza attribuirsi formalmente la titolarità della stessa. Egli invero, spiegano gli investigatori della Polizia, è stato condannato per associazione mafiosa, è stato sottoposto alla misura di prevenzione dell’obbligo di soggiorno del comune di residenza ed è stato destinatario della misura di prevenzione della confisca. Non poteva pertanto essere proprietario formale di un’azienda agricola che certamente gli sarebbe stata sequestrata.

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