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Cronaca

Centododici anni fa il terremoto che passò alla storia: la notte funesta di Reggio e Messina

Il terremoto dello Stretto è considerato dagli studiosi uno degli eventi sismici più catastrofici del XX secolo. Ha raso al suolo il 90 per cento degli edifici causando più di 120 mila morti e altrettanti furono gli sfollati

Erano le 5:20:27 del 28 dicembre del 1908 quando, un boato, in soli 37 secondi ingoiò Reggio Calabria e Messina. Quando la terrà finì di tremare, il terremoto dello Stretto, apocalittico, da sempre considerato dagli studiosi uno degli eventi sismici più catastrofici del XX secolo, aveva raso al suolo il 90 per cento degli edifici causando più di 120 mila morti e altrettanti sfollati. 

Il sisma di magnitudo 7.1, sulla scala Richter, oggi ricorre il 112° anniversario, aveva colto le popolazioni nel sonno, interrotto tutte le vie di comunicazione: strade, ferrovie, telegrafo e telefono, distrutti i cavi elettrici e le tubazioni del gas, illuminazione stradale sospesa fino a Villa San Giovanni e  Palmi.

Maremoto con onde alte fino a 10 metri

L’epicentro del sisma, localizzato nello Stretto, causò almeno tre onde di maremoto che devastarono la costa messinese e  reggina.  Le onde raggiunsero un'altezza massima oscillante tra i 6 e gli 11 metri circa nel tratto da Gallico Marina a Lazzaro, con un massimo all’incirca di 13 metri a Pellaro. Il mare non risparmiò nemmeno Messina.

La relazione storica

La relazione al Senato del Regno del 1909 sul terremoto di Messina e Reggio: "Un attimo della potenza degli elementi ha flagellato due nobilissime province – nobilissime e care – abbattendo molti secoli di opere e di civiltà. Non è soltanto una sventura della gente italiana; è una sventura della umanità, sicché il grido pietoso scoppiava al di qua e al di là delle Alpi e dei mari, fondendo e confondendo, in una gara di sacrificio e di fratellanza, ogni persona, ogni classe, ogni nazionalità.

È la pietà dei vivi che tenta la rivincita dell'umanità sulle violenze della terra. Forse non è ancor completo, nei nostri intelletti, il terribile quadro, né preciso il concetto della grande sventura, né ancor siamo in grado di misurare le proporzioni dell'abisso, dal cui fondo spaventoso vogliamo risorgere. Sappiamo che il danno è immenso, e che grandi e immediate provvidenze sono necessarie".

I siciliani e i calabresi vennero immediatamente soccorsi, martedì 29 dicembre, da navi russe e britanniche che erano alla fonda a Siracusa e ad Augusta, mentre gli aiuti italiani arrivarono poco dopo. Il ritardo fu causato dal fatto che i piroscafi partirono da Napoli, e in tarda serata, subito dopo che le reali notizie sulla catastrofe arrivarono al Governo.

La testimonianza del capitano della nave "Washington"

"Facevamo rotta da Palermo a Messina; nei pressi del faro messinese, alle 5.20, il mio vascello sussultò tremendamente e fu sollevato in alto. Le onde in quel momento non erano alte e io credetti che avessimo urtato contro uno scoglio. Ma nello stesso istante il faro di Messina si spense, sul mare si abbassò una strana nebbia, secca, come fosse polvere, e perdemmo di vista sia il porto di Messina che la costa calabra.

Continuai a procedere lentamente, con ogni precauzione, inquieto, percependo che a terra stava accadendo qualche disgrazia. Alle 5 e 25 un nuovo scossone sul vascello e un rombo sulla costa. Le scosse e i boati si ripeterono a terra alle 6 e 15, 6 e 40, 6 e 45, accompagnati da fracasso e strepito. Alle 7 stavamo alla fonda immersi nella foschia, la quale diradandosi lentamente ci permise di vedere il faro diroccato. Si avvicinò una barca che ci informò della disgrazia e chiese soccorso. L’imboccatura dello Stretto era ingombra di battelli capovolti, barche, mobili, pezzi di legno. Avvicinandoci alla riva scorgemmo al posto della città mucchi di rovine e dappertutto case diroccate".

Un uomo di Reggio racconta:

"Nel sonno fui gettato a terra dal letto, e su di me crollarono non so quali pesi; ferito alla testa, al collo e alle gambe perdetti conoscenza, e quando tornai in me riuscii con grande sforzo e sofferenza a trascinarmi fuori del cumulo di macerie acuminate, che mi incidevano la pelle e il corpo. Per la strada vidi un maestro di mia conoscenza, che, barcollando, mezzo svestito, portava sulle spalle la madre e teneva per mano la moglie; tutti e tre tacevano. Ad un tratto, inciampando tra le macerie, egli cadde, lo aiutai a rialzarsi e insieme continuammo attraverso le barricate di rottami verso una piazza, sobbalzando e cadendo di continuo per le scosse del terreno, coperti di polvere, assordati dal fracasso degli edifici che crollavano.

Giunti in piazza, incontrai un mio conoscente; piangendo, ci abbracciammo fortemente, e solo allora notai che entrambi eravamo quasi nudi. Davanti a noi giacevano le rovine di un orfanotrofio, qualcuno mi disse: 'Tutti i bambini sono morti'. Per un qualche miracolo un balcone era rimasto intatto, e da lì un'ombra bianca ci gridava: "Aiuto! Qui ne sono sepolti sette!". Ma quasi nello stesso istante il muro, inclinandosi, crollò lentamente, e l'uomo, dopo un ultimo grido, tacque. La polvere eccitava la sete, e la gente si gettava sulle fontane, ma queste erano asciutte. Corsi verso la stazione telegrafica, ma ormai era già stata distrutta, e ciò che rimaneva si disfece sotto i miei occhi.

Si udì un rumore sordo proveniente dal sottosuolo, e sentendo come la terra tremava sotto i piedi, mi lanciai verso il Corso, ma fui fermato da soldati della dogana che mi pregarono di aiutarli ad estrarre un ferito da sotto un mucchio di calcinacci. Iniziammo l'impresa, ma una nuova scossa lasciò cadere sul ferito altre pesanti pietre che lo schiacciarono.

Da sotto le rovine giungevano urla e lamenti. Con incedere tranquillo e misurato passò innanzi a me un uomo avvolto in un lenzuolo, gli chiesi qualcosa, ma egli né rispose né si fermò, e guardando il suo volto impassibile percepii che era impazzito. Qui e là si muovevano lentamente persone febbricitanti, vestite sommariamente; scavando con le mani tra le macerie, i figli cercavano i padri e le madri, le ragazze singhiozzavano, i bambini piangevano, le donne gridavano, imprecando Dio.

Qualcuno mi disse che dei 105 malati dell'ospedale se ne erano salvati 12, ma questi stavano morendo per il freddo e soffocati dal fumo degli incendi. Ricordo due militari, che a rischio delle loro vite, si arrampicarono sulle rovine per salvare una famiglia, ed avevano già portato in salvo sette persone.

Tutte le case intorno erano abbattute. Il capostazione mi disse che il mare si era prima ritirato per una trentina di metri, e quindi, sollevandosi in un'onda dalla grandezza diabolica si era scagliato sulla riva distruggendo tutto, e ritirandosi nuovamente aveva trascinato in mare persone e macerie; furono gettati sulla riva due battelli a vapore e alcune imbarcazioni a vela, i cui equipaggi perirono. I magazzini del porto furono vuotati, e lungo la riva galleggiavano casse, latte di petrolio e sacchi di pane". (da Il Terremoto di Messina e Reggio Calabria del 1908 di Vito La Colla).

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