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Sabato, 27 Aprile 2024
Antimafia

Tiberio, Adriana e gli altri: le storie reggine di resistenza alla criminalità

Nel libro La Tazzina della Legalità, progetto dell'omonima associazione ideata da Sergio Gaglianese, tanti messaggi e idee di persone coraggiose

La storia di Tiberio Bentivoglio, che l'imprenditore reggino ha recentemente riportato all'attenzione pubblica con un'intervista al settimanale L'Espresso, non è l'unica di resistenza civile e morale contro la criminalità organizzata. Ce ne sono tante, sommerse e bisognose di risalire in superficie ed essere testimoniate, consegnate ad altri uomini e donne.

Domani mattina si parlerà anche di questo nell'aula Federica Monteleone del consiglio regionale nella seduta della commissione consiliare su ‘ndrangheta, corruzione e illegalità diffusa presieduta da Pietro Molinaro, che ha all'ordine del giorno l’insediamento della consulta regionale per la legalità. Un organo di consulenza importante per la prevezione dei fenomeni di racket e la tutela degli imprenditori calabresi. Tanti di loro, come Bentivoglio, lottano ogni giorno per restare nella loro terra vivi, liberi e senza subire ricatti.

Le storie dei reggini contro la 'ndrangheta nel libro La Tazzina della Legalità

Per dare voce a queste esperienze e amplificare la forza di quanti non cedono alla paura e la violenza, è nata l'associazione La Tazzina della Legalità, fondata nel 2022 dall'imprenditore Sergio Gaglianese all'indomani di un atto intimidatorio nell'azienda Guglielmo Caffé. In questi anni il sodalizio ha organizzato incontri e iniziative di sensibilizzazione coinvolgendo enti pubblici, imprese, associazioni di categoria, università e ordini professionali. Qualche mese fa è stato realizzato il progetto di un libro che raccoglie contributi di idee sulla legalità nei vari campi di società, politica ed economia, i cui proventi di vendita finanzieranno borse di studio per sostenere i percorsi universitari dei giovani calabresi.

Il libro La tazzina della legalità

Nel volume edito da Giacovelli ci sono le parole di uomini e donne che insieme vogliono costruire un futuro diverso. Tra loro alcuni personaggi reggini con le loro riflessioni nate da percorsi personali dolorosi, nei quali la metà oscura del territorio è stata sconfitta dalla luce del coraggio e della volontà. 

Antonino Bartuccio, commercialista di Rizziconi, è finito nel mirino della 'ndrangheta dopo la sua elezione a sindaco: ha denunciato le minacce che hanno portato alle dimissioni dei suoi consiglieri e poi allo scioglimento del Comune, e vive sotto scorta da dieci anni ma non ha mai voluto lasciare il suo paese. "Non ho mai fatto nulla di straordinario - dice - solo il mio dovere di cittadino e di rappresentante delle istituzioni". Raccontando una vita privata della serenità dell'ordinario, nella quale anche accendere il motore dell'auto è un atto che suscita tensione, vede però piccoli segni di cambiamento a Rizziconi. "La presenza dello Stato sta dando fiducia alle persone", spiega e sottolinea la valenza simbolica dell'intitolazione di una strada a Francesco Maria Inzitari, ucciso a 18 anni a Taurianova. La legalità è diventata familiare, nota, non più eccezione aliena, come dimostra il gesto della donna che un giorno ha avvicinato i poliziotti della scorta per offrire loro la colazione dopo la notte trascorsa sotto casa dell'ex sindaco. "Denunciando sono certo di aver fatto la scelta giusta e di aver salvato i miei figli dal cattivo esempio", scrive Bartuccio. "L'unica possibilità che hanno gli uomini dei clan è pentirsi e cambiare vita. Sarebbe una cosa bella, nella nostra terra libera dalla criminalità organizzata, con lavoro e benessere per tutti, anche per i figli dei loro nipoti". 

Bruno Bonfà, imprenditore agricolo della Locride conosciuto come 're del bergamotto', ha perso il padre in un agguato di stampo mafioso e da anni subisce la vessazione delle vacche sacre nei propri terreni, con perdite economiche gravissime. La sua lunga battaglia, arrivata fino al Csm e il presidente della Repubblica, per far riconoscere la natura criminale del fenomeno, si è ampliata alla divulgazione dei principi di legalità. Per sostituire l'atavica "ragione della forza" alla "forza della ragione", che si rinvigorisce anche attraverso la cultura e lo studio. Bonfà, ricercatore ed appassionato di lingue antiche, oggi sta studiando medicina e chirurgia ed è vicino alla laurea.

Vincenzo Chindamo è il fratello di Maria, l'imprenditrice di Laureana di Borrello scomparsa davanti ai cancelli della sua azienda nel Vibonese e sul cui destino pochi mesi fa è emersa l'agghiaccante verità: è stata uccisa da esponenti di un clan perché ritenuta responsabile del suicidio del marito, dal quale si era separata, e per il suo rifiuto di cedere i suoi terreni. Vincenzo ricorda la prima traumatica scoperta della 'ndrangheta da bambino, quando per le strade scorreva il sangue dei morti ammazzati e si sparava senza pietà, neanche per una coetanea di appena 10 anni, che quella sera stava rientrando a casa per vedere il festival di Sanremo in tv, accompagnata dalla persona sbagliata - un adulto che invece di proteggerla la trascinò con sè all'inferno. 

Dopo le rivelazioni del pentito sulla fine brutale di Maria, data in pasto ai maiali, dice Vincenzo: "La rabbia incontenibile e il dolore per quello che era successo, e la paura per quello che potrebbe ancora accadere, invece che farmi sprofondare nell'intorpidimento, mi ha fatto reagire. Lo faccio per lei, per la nostra famiglia e un territorio umiliato da fatti come questo, che sporcano la bellezza e l'anima di un luogo meraviglioso". 

La memoria della sorella, morta perché libera, Vincenzo la custodisce intatta anche con la sottrazione delle sue terre al controllo della criminalità, grazie all'affidamento con curatela dell'azienda alla cooperativa sociale Goel Bio, creata da produttori agricoli biologici che in Calabria si oppongono alla 'ndrangheta. Negli anni di ricerca per la verità e la giustizia, incontrando altri familiari delle vittime di 'ndrangheta, Chindamo ha condiviso "il valore altissimo della compassione; portare il peso della croce e non sentirmi solo mi ha dato nuove energie e quel dolore e quella rabbia stanno diventando cambiamento e speranza".

Adriana Musella è la figlia dell'ingegnere salernitano Gennaro, ucciso da un'autobomba a Reggio Calabria, dove una strada del centro cittadino porta il suo nome. Presidente del coordinamento nazionale antimafia, Adriana alla violenza criminale ha risposto con la tenerezza di un fiore, la gerbera gialla diventata simbolo di legalità nella prima manifestazione contro la mafia a Reggio, e ha fondato il coordinamento Riferimenti. "Sono rimasta in Calabria per sfida - scrive - per sfida, perché ho un carattere testardo e soprattutto per impedire la rimozione di quella tragedia. Mi sono costituita parte civile e ho sempre pensato che se fossi andata via da quella regione, la morte di mio padre sarebbe stata dimenticata". L'antimafia per Adriana Musella è un sentimento, fiducioso e tradito: "Per tanto tempo ho creduto di cambiare il mondo, mi sono ribellata e illusa. Invece è stato il mondo a cambiarmi la vita. Hanno ucciso la mia anima. Quando si permette ai boss di tornare in libertà e passeggiare sotto le finestre di chi ha denunciato, non si dica poi che si vuole combattere la mafia". Non ha però nessun rimpianto: "Non sono pentita di aver speso gran parte della mia vita anche sacrificando affetti, libertà e sogni. I simboli non muoiono, per quanto forte il vento possa soffiare, sopravviveranno".

Giusy Caminiti, avvocata, giornalista e dal 2022 sindaca di Villa San Giovanni, nell'anniversario dell'elezione ha ricevuto un omaggio spaventoso, il rogo del portone del suo studio legale. "Forse - confida - volevano soltanto ricordarmi che loro ci sono. Ci sono e non arretrano. Ma io lo so, come lo sappiamo tutti noi che abitiamo a queste latitudini, sappiamo cosa vuol dire non entrare in un bar, rifiutare un caffé, condizionare il proprio presente e futuro". Nata e cresciuta in una terra di 'ndrangheta, ha scelto di lavorare come amministratrice "a testa bassa e con il cuore in mano" per generare "un percorso virtuoso e irreversibile di cultura, l'unica in grado di salvarci perché madre di civiltà e del senso di comunità".

La storia di Maria Antonietta Rositani non parla di ‘ndrangheta, ma la mentalità di possesso e prevaricazione mafiosa ha molto in comune con la violenza subìta dall’infermiera reggina. L’ex marito tentò di ucciderla dandole fuoco: si è salvata quasi per miracolo, ma di quei momenti tremendi le restano addosso ustioni sulla superficie di metà del corpo. L’aggressore è stato condannato in via definitiva a 17 anni di carcere, capace di intendere e di volere e riconosciuto autore di un delitto premeditato. Dopo lunghi mesi di sofferenza insopportabile trascorsi in ospedale, Maria Antonietta è letteralmente rinata e oggi il suo obiettivo è poter tornare a lavorare. La sua tragica vicenda l’ha trasformata in dono per le altre donne: “Mi hanno scritto in tante che come me hanno denunciato. Sono felice di aver trasmesso un messaggio di speranza ma non sono speciale. Ogni donna può trovare il coraggio dentro di sé e io vorrei aiutare le persone che soffrono. Il mio dolore è passato, sono pronta a lenire quello degli altri”.

La reggina Menia Cutrupi, ingegnera specialista in coaching e counseling, ha mai pagato le denunce contro la criminalità con la chiusura della sua azienda di famiglia. Aveva come modello il padre, che non aveva mai voluto pagare il pizzo. Ha ricominciato con una start up che si occupava di servizi innovativi dedicati alle mamme, ma una malattia degenerativa le ha fatto cambiare strada per la terza volta e oggi s' è laurerata in tecniche psicologiche. "Quando la 'ndrangheta venne a bussare alla porta - racconta - la nostra vita cambiò per sempre. Non ci sono parole per descrivere la condizione psicologica di chi è vittima. La paura non si rimuove mai, neanche con l'arresto dei colpevoli ma affiora continuamente, quando rientri a casa e temi che ci sia qualcuno ad aspettarti, quando non vedi subito tuo figlio all'uscita di scuola e pensi al peggio". La 'ndrangheta è un ammazzasogni ma il talismano per debellarla è la bellezza. Menia ne è sicura: "Credo che questo sia l'unico modo per rinascere e che sia nostro dovere farlo. E devono saperlo i nostri giovani. In Calabria possono avere un futuro diverso, che li sproni a non scappare e mettere radici". 

Il messaggio di Tiberio Bentivoglio nel libro tira le fila di tutte le battaglie perse, i sentimenti di impotenza e abbandono, i traguardi che nutrono speranza. "Non vogliamo più essere vittime di mafia ma sopravvissuti consapevoli, sopravvissuti allo scempio mafioso e l'isolamento sociale". 

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