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La testimonianza

Nel docufilm di Melasi il messaggio di umanità del cimitero dei migranti di Armo

Ieri in città la presentazione dell'emozionante lavoro firmato dal regista reggino, prodotto dalla Caritas e dedicato all'esperienza dei volontari

E’ un mosaico di testimonianze dove il filo conduttore è l’umanità, senza differenze di lingua, cultura, religione, colore della pelle. “Armo, storie di volontari e migranti”, docufilm del regista Antonio Melasi, è un progetto prodotto dalla Caritas provinciale in origine per raccontare la creazione del cimitero reggino che accoglie le salme delle vittime degli sbarchi, che ha poi trovato un drammatico filo rosso con il recente naufragio di Cutro.

La tragedia nelle acque di Crotone traccia oggi il confine tra un prima e un dopo dell’emergenza immigrazione, ma nel documentario di Melasi si ricollega al racconto di quel 29 maggio 2016, quando uno dei tanti arrivi di persone disperate nel porto di Reggio Calabria rivelò quel giorno uno scenario scioccante: a bordo della nave Vega c’erano 45 cadaveri. Il racconto di Enzo Romeo, medico volontario della Croce Rossa, agghiaccia il cuore: “E’ stato straziante perché quei corpi erano tanti e le navi non avevano celle frigorifere per conservarli. Rimasero sotto il sole estivo per tante ore, e già pieni di acqua si gonfiarono dentro i sacchi. Tutti dobbiamo morire, ma credo che ognuno abbia il diritto di finire con dignità”. Se quei sacchi si fossero rotti si sarebbe reso necessario sterilizzare gli interni della nave. “Ma era impensabile farla fermare nel porto – aggiunge Romeo – perché doveva ripartire con urgenza per il salvataggio di altre persone… quello che oggi sembra essere diventato meno importante”.

Il documentario è stato presentato in anteprima ieri sera presso l’auditorium Don Orione con Maria Angela Ambrogio, don Pasqualino Catanese, vicario generale dell'arcidiocesi di Reggio Bova, la giornalista Anna Foti e il direttore di Caritas italiana, don Marco Pagniello, che ha inviato un videomessaggio

Una lunga stagione di sbarchi che fa parte della memoria collettiva della popolazione reggina

Il docufilm ripercorre dal 2014 gli anni di una lunga stagione di sbarchi attraverso le voci dei volontari della Caritas, che hanno prestato la loro opera solidale anche nelle festività, le domeniche mattina, il giorno di Natale. L’atmosfera era sempre stata di fiducia e luce dopo tanto buio: si scappava da guerre e violenze e questa terra rappresentava la salvezza. A dirlo è Fabio Siclari, spiegando che nella routine tra volontari e migranti c’era distensione e allegria, si scherzava, si giocava con i bambini. Chi li accoglieva in prima linea però scorgeva su corpi e volti i segni delle torture.

Lo sfondo delle storie narrate è come il mare. La sua immensità pericolosa e insieme carica di promesse e opportunità. I migranti sono sistemati nella ex palestra “Scatolone”, i responsabili del coordinamento ecclesiale degli sbarchi non riescono a sopportare quella situazione emergenziale ma disumana: a Bruna Mangiola stringe il cuore, a Giovanni Fortugno appaiono come animali chiusi in gabbia.  E si inizia a pensare a come aiutarli in modo diverso, affinché quella diventi accoglienza vera.

Nel docufilm ci sono le esperienze di Casa Anawim, dove sono state ospitate più di cento persone e della comunità di Cannavò, che con il parroco don Nino Russo, vicedirettore della Caritas reggina, si occupa di ragazzi come Moussa. E’ lo stesso giovane africano a parlare del suo percorso e dell’affetto che lo lega alla volontaria Angela Branca: “Per me è la mamma che non ho più, mi ha dato una casa e mi ha permesso di studiare perché è per questo che sono arrivato qui, per avere una vita degna”. A Reggio Moussa si è iscritto all’università per stranieri, ha trovato un lavoro e conosciuto la compagna Annalisa, volontaria del servizio civile e che da bambina, dopo essersi innamorata dell’attore Will Smith, aveva sempre saputo che l’uomo della sua vita sarebbe stato nero.

Non conosciamo invece il nome della ragazza ghanese di cui, senza poter evitare che gli si spezzi la voce, parla il medico volontario Mario Scuderi. Giovanissima e già madre di quattro figli, era sbarcata malata e dall’ospedale fu trasferita all’hospice. Aveva chiesto di visitare un parente a Napoli ma gli adempimenti in questura richiesero troppo tempo per il suo arrivo puntuale in stazione, che sarebbe dovuto avvenire tra le braccia di un volontario, perché lei era troppo debole per camminare in autonomia. “Andammo a parlare con il conducente del locomotore - dice il dottor Scuderi - chiedendogli di fingere che l’orologio andasse qualche minuto indietro. Lui ci disse che spesso collaborava con l’hospice ...e quel giorno il treno partì in ritardo”.

Dai morti della nave Vega alle vittime della tragedia di Cutro un filo rosso di fraternità

A Reggio i migranti sono stati abbracciati con una “fraternità grandissima, che non guardava alla diversità di religione”, dice don Nino Pangallo, rettore del seminario ed ex direttore della Caritas diocesana di Reggio-Bova. Davanti a quelle morti si pregava con le stesse parole, affidando le vittima alla misericordia di Dio. Insieme, come nella veglia per il naufragio di Cutro nel Duomo reggino, con gli scout accanto a Hassan Helmazi, portavoce della comunità islamica. E in quella processione parallela, qualche tempo prima, che aveva fatto sfilare una croce su cui erano piantati chiodi per ognuna delle vittime giunte nel 2016 a bordo della Vega.

Tombe nel cimitero di Armo

A giugno di quell’anno nacque il cimitero di Armo, un luogo per i migranti morti in mare e per i poveri senza nome. Una vicenda tragica di morte divenne memoriale collettivo e dono per chi, anziché macerare negli abissi, da adesso riposerà lì. Un’opera che appartiene alla città, e sorge partendo da cumuli di sabbia, fiori e piccole croci, con suore, sacerdoti e ragazzi impegnati a lavorare nonostante il caldo della piena estate. Sarà inaugurato Il 10 giugno 2022, e, dice il neo vescovo Fortunato Morrone: “E’ una benedizione per Reggio”.

Il titolo del docufilm gioca con la parola Armo, che togliendo la lettera R diventa il verbo amare. In questi anni i volontari della Caritas di Reggio hanno scritto una pagina di speranza sull’emergenza immigrazione. E raccontano anche di un’Europa solidale, che ama il Mediterraneo e costruisce ponti. Melasi cita il documentario sulle stragi in mare del regista tedesco Andreas Kuno Richter. Nelle immagini girate a bordo della Sea Watch c’è anche il volontario Martin Kolek, che tenendo tra le braccia il cadavere di un bambino di pochi mesi, recuperato dall’acqua con addosso soltanto un pannolino aperto, commenta: “C’è qualcosa che non va nella cultura umana”.

Martin ha contribuito alla realizzazione del cimitero di Armo favorendo una dotazione da parte della diocesi luterana di Paderborn, e lo ha poi visitato portando con sé suo figlio. In quel gesto è racchiusa la riflessione che suscita questo docufilm, su quale sia l’Europa che oggi vogliamo per rimanere umani.

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