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Il caso

Good Mothers, Giusy Pesce contro la serie Disney+: "Non autorizzata"

La collaboratrice di giustizia si ritiene lesa e messa a rischio dalla fiction appena uscita in streaming, ma il suo caso fa parte del più ampio dibattito su come parlare di 'ndrangheta al cinema

A pochi giorni dall'uscita in streaming internazionale di "The Good Mothers" su Disney+, la lanciatissima serie tv rischia magagne legali. Ha infatto chiesto il blocco della programmazione una delle donne che hanno ispirato la storia narrata, tratta dal libro del giornalista americano Alex Perry, dove ci sono Lea Garofalo, Giuseppina Pesce e Maria Concetta Cacciola con le loro drammatiche vicende di ribellione alle famiglie di 'ndrangheta di cui facevano parte per sangue o legami affettivi. La rosarnese Pesce è l'unica delle tre ad essere ancora in vita e non le è piaciuto il modo in cui è stata rappresentata nella fiction (dove nei suoi panni c'è l'attrice Valentina Bellè). Attraverso la sua avvocata Michela Scafetta si è opposta alla serie girata nella provincia di Reggio Calabria, che sostiene non essere stata autorizzata da lei nella parte che la riguarda: in particolare si fa riferimento alle prime tre puntate, in cui ci sarebbero errori sui fatti processuali attinenti alla collaboratice di giustizia, inoltre il personaggio del padre, Salvatore Pesce, è raffigurato in modo negativo e non corrispondente al vero rapporto tra lui e la figlia, che Giusy rivendica come amorevole e premuroso verso di lei. 

All'iniziativa di Giuseppina Pesce, secondo quanto riportato in queste ore dal Quotidiano del Sud, potrebbe seguire una querela da parte di Marisa Garofalo, che contesta l'episodio della festa del diciottesimo della nipote Denise, avvenuta a pochi giorni dalla scomparsa di Lea. Nella serie Denise si rifiuta di andare ma la zia è presente al party, che si trasforma poi in una celebrazione di Carlo Cosco (caratterizzata dallo sfoggio di grandiosità tipico dei boss e con il solito inserto folk della tarantella), invece la vera Marisa non andò in rispetto della memoria della sorella.

L'intervento di Pesce può creare problemi seri alla produzione e alla piattaforma, perché se è vero che nessuno dei nomi delle protagoniste è stato cambiato, le altre donne purtroppo non sono più al mondo, con l'eccezione della sola Denise Cosco, figlia di Lea, che però è già stata al centro di altre ricostruzioni cinematografiche della storia della madre. Inoltre il caso di Giusy Pesce è delicato perché, sostiene l'avvocato Scafetta in una intervista a Vanity Fair, la circostanza di essere attualmente in un programma di protezione potrebbe mettere a rischio la sicurezza e la serenità di Giuseppina e i figli, uno dei quali ancora minorenne, a causa dell'identificazione con i veri nomi nella serie. Sempre dall'avvocato si apprende che la serie, nonostante la richiesta di Giusy Pesce, non potrà essere cancellata dallo streaming di Disney+ : la produzione sarebbe tutelata dalla vasta notorietà dell'inchiesta che ha coinvolto la famiglia Pesce e la stessa pentita. Oltre a un risarcimento per i danni causati dalla messa in onda, potrebbe però essere vietata la realizzazione di una seconda stagione, di cui già si parlava sulla scia del successo di critica di "The Good Mothers", vincitrice dell'orso d'oro al festival del cinema di Berlino. 

La vera storia di Giuseppina Pesce, che adesso vuole vivere in pace

La 47enne Giuseppina Pesce è nata in una delle famiglie di 'ndrangheta più potenti della Piana. Giovanissima sposa e madre di tre figli, dopo l'arresto ha scelto di collaborare con la pm Alessandra Cerreti (personaggio che nella serie si chiama Anna Colace, interpretata da Barbara Chichiarelli) contribuendo con la sua testimonianza come pentita all'avvio dell'operazione che poi avrebbe mandato a processo i suoi familiari. Oggi vive in una località segreta con regime di protezione e non è mai tornata in Calabria, come invece fece Concetta Cacciola, spinta dalla nostalgia dei figli, attirata in una trappola mortale. 

Pesce dice di aver appreso dell'esistenza della serie solo adesso, nella data di uscita in streaming, nonostante mesi di presenza sui media anche grazie alla visibilità di Berlino. Pare che la scoperta sia avvenuta per caso, leggendo una recensione sul web. L'avvocata della collaboratrice di giustizia ha fatto sapere che, se fosse stata contatta per chiedere l'autorizzazione all'uso della sua storia personale, Pesce avrebbe negato il consenso. A Vanity Fair Scafetta ha dichiarato che la serie tv "ha riportato a galla dolore e rinunce, facendo sprofondare la protagonista ed i suoi figli nella paura e nell'incertezza di riuscire a mantenere ciò che finora hanno costruito. Chi ha scritto, prodotto e divulgato questa serie non ha assolutamente preso in considerazione le gravi conseguenze che possono derivare a chi da anni cerca di vivere nell’ombra e che oggi si vede sotto i riflettori con il proprio nome e la propria immagine". 

Parole che colpiscono anche ricordando la conferenza stampa di "The Good Mothers" a Berlino, dove proprio l'attrice che interpreta Giusy Pesce ha rilasciato dichiarazioni forti su un clima di resistenza e chiusura percepito durante le riprese calabresi della serie. Si è girato a Reggio, Fiumara e Palmi e l'atmosfera del set, ha raccontato l'attrice, è stata di diffidenza, con i residenti che apparivano infastiditi dall'ennesimo prodotto televisivo incentrato sulla criminalità. "Qualcuno mi ha detto che la 'ndrangheta non esiste più - ha detto Bellé - e mi ha un po' sconcertata, visto che queste storie non sono accadute molti anni fa. Come si fa a negarle o sostenere che non serve continuare a parlarle?". Dell'attrice, che ha esordito come modella, un recensore ha notato che in "The Good Mothers" è "irriconoscibile", alludendo al cambiamento della sua immagine appariscente per un ruolo in cui avrebbe dovuto mostrarsi dimessa. Nella serie del personaggio di Giusy si fanno vedere situazioni privatissime che riguardano una relazione extraconiugale che la mette in rotta con la famiglia, ostile a un atto rivoluzionario come la separazione, che avrebbe gettato discredito perché proveniente da una donna. Argomenti sensibilissimi (il personaggio di fiction si confida con le amiche sulla passione provata per l'amante) sui quali Pesce si è sentita lesa nella sua immagine. 

L'infinito dibattito attorno a come parlare di 'ndrangheta in cinema e tv

Al di là della legittima reazione per vie legali di Giusy Pesce, l'argomento è radicato e irrisolto. Uscendo dal singolo caso, non c'è pace per la narrazione cinematografica della 'ndrangheta, che da fenomeno poco noto e oscurato dall'iconografia storica di mafia e camorra, negli ultimi anni sta interessando molti autori fino a diventare, all'estremo opposto, persino trendy in un filone dalla prospettiva femminile. Un esempio è la serie Amazon "Bang bang baby", ideata da Andrea Di Stefano e ispirata a un'altra storia vera, quella della principessa di 'ndrangheta Marisa Merico sulla base della sua biografia romanzata "L'intoccabile". Lì però il registro era quello di un umorismo nero con risvolti sentimentali, che fanno di quella serie un prodotto originale e pop grazie alla scelta di disseminare memorabilia degli anni Ottanta, che coincidono con l'exploit della 'ndrangheta a Milano.

Ma di famiglie di 'ndrangheta e donne coraggiose si parla anche nel film "Una femmina" di Francesco Costabile, anche questo premiato a Berlino oltre che destinatario di numerosi altri riconoscimenti in festival italiani e stranieri. In quel caso la fonte era il libro-inchiesta "Fimmine ribelli" di Lirio Abbate e la protagonista Rosa (la straordinaria esordiente Lina Siciliano) si ispira a varie storie vere, tra cui quella di Giuseppina Pesce. Nomi e dettagli ambientali sono stati però modificati e i tasselli delle diverse storie hanno ispirato un personaggio inventato, evocativo di una dimensione esistenziale simbolica. "The Good Mothers", come spiegato a Berlino dai produttori italiani di Wildside e dal regista Julian Jarrolds, ha voluto invece puntare sul realismo (elemento definitivo che è piaciuto alla giuria), nella consapevolezza di rischiare una stereotipizzazione, che comunque sarebbe stato il male minore rispetto a quella fascinazione del mafioso fatalmente cristallizzata in capolavori come "Il padrino" di Francis Ford Coppola.

Il regista cosentino Francesco Costabile commenta: "Non ho visto la serie ma mi dispiace molto per i colleghi, è una situazione complessa perché da una parte c'è il diritto di cronaca su fatti che sono stati ampiamente raccontati sui giornali, ma dall'altra queste donne hanno un diritto all'oblio. Io stesso per il mio film ho provato a parlare con qualche collaboratrice di giustizia ma non ci sono riuscito - continua - anche se il mio punto di vista è molto preciso e diverso da come si è sempre raccontato questo tema. Non mi interessava fare inchiesta ma indagare la psicologia di queste donne in una prospettiva universale e archetipica". 

E' un dibattito infinito e probabilmente senza soluzione a queste latitudini, dove la 'ndrangheta è avvertita come un marchio di infamità che appesta il territorio e i calabresi onesti. Il terreno è minato, viscoso. Con Stanley Tucci e la puntata calabrese di "Searching for Italy", la Regione era scivolata sulla classica buccia di banana sventolando una conquista mediatica da vendere a favor di turismo americano e ritrovandosi l'imbarazzante commento della star sull'infestazione criminale sul territorio - al turismo si consigliano sì pescespada, frittole e cipolla da gourmet, ma con l'avvertenza di fare attenzione a un certo ambientino locale.

"Calibro 9" di Tony D'Angelo, figlio di Nino, che aveva voluto fare un sequel-omaggio alla pellicola cult di Fernando Di Leo, era finito al centro di una polemica per la ricostruzione del cartello stradale di Stalettì crivellato da proiettili, una scena autorizzata dall'amministrazione, che aveva spiegato, in soldoni, di averlo fatto perché ogni pubblicità - e quel film ne portava tanta - è un caval donato a cui non si guarda in bocca. Ma quale dovrebbe essere l'impossibile quadratura del cerchio? Non parlarne affatto? A proposito dell'ultimo set ambientato a Reggio, quello del noir "Buio come il cuore" di Marco De Luca, qualcuno tra rappresentanti istituzionali e cast aveva espresso soddisfazione per un film che finalmente non parlerà di boss e morti ammazzati. Chissà se la stessa considerazione è circolata a Napoli per le tematiche malavitose dell'osannata serie "Mare fuori", della cui costruzione massificata (un calderone di topoi popolari da romanzetto abilmente ricuciti su un target adolescenziale) non si è lamentato nessuno.

Di una cosa siamo certi: la 'ndrangheta non si è estinta e non deve scomparire dai radar cinematografici solo perchè ci fa male - e non potrebbe non essere così. L'equilibrio tra realtà e sceneggiatura e la capacità di innalzare lo sguardo al di sopra dei cliché a tinte forti per attirare spettatori, il moralismo altrettanto fuori luogo e la banalità, non sono alla portata di tutti e si chiamano arte. Le storie di criminalità sono sasso che si espandono in cerchi che travalicano lo spazio, il tempo e le generazioni. Possiamo raccontarle con la finzione artistica o il rigore dell0inchiesta, trasformarla in un prodotto, mai. 

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