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Cultura e sviluppo / Bova

La tarantella pop è un prodotto e non sappiamo neanche venderlo

Il sonu della nostra tradizione popolare muore nell'omologazione. L'idea del festival Paleariza e l'attuale scelta di seguire un trend che qui non funziona

Il ricordo è troppo vivo perché ogni anno nella provincia reggina grecanica non si speri nel ritorno del festival Paleariza. L’ultima edizione della rassegna di musica e tradizioni popolari del Gal di zona si è svolta nel 2020, la prima era stata nel 1997, con uno spartiacque importante tra la storica direzione artistica di Ettore Castagna e, dopo il 2015, la gestione diretta del Gruppo di azione locale, che con l’antropologo e musicista aveva già iniziato una crisi di rapporti.

La storia di Paleariza (nome ispirato alle radici grecofone dei territori interessati) coincide con un’idea di sviluppo geniale, che aveva tentato di salvaguardare la tradizione antica dei luoghi dentro un progetto di valorizzazione di arti e mestieri che si aprivano al dialogo con le altre culture.

Oggi di quell’intuizione restano fugaci monadi decontestualizzate dentro il poco che sopravvive di quello che era un ricco programma culturale. A Bova il ballu du camiddhu, asinello di cartapesta che danza bruciando tra scintille pirotecniche; a Palizzi l’iniziativa di privati per riprodurre l’evento dei catoi aperti legandolo a mostre e degustazioni. Il festival formalmente esiste ancora, ma da due anni è un fantasma, mancando un cartellone strutturato di eventi: nel 2020 i concerti erano stati a ranghi ridotti e le attività collaterali di escursionismo e gastronomia non pervenute.

Paleariza e quell'esperimento originale di sviluppo interrotto per seguire il trend della tarantella

Paleariza, quello originario, era altro. Chi ha memoria lunga ricorda i borghi di Pentedattilo, Bova superiore, Palizzi, Staiti, Gallicianò animati dalla musica, le case con le porte aperte e il profumo intenso della lestopitta – uno dei marchi locali del festival insieme al trekking, i laboratori e seminari, il recupero di cerimonie come il citato cammiddhu e il palio degli scecchi, la sede nell’hinterland profondo e segreto, poco agevole da raggiungere per filosofia precisa.

Non esattamente una strategia per il turismo di massa, ma era la specificità per costruire un esempio originale di sviluppo. Una novità assoluta, studiata dalle università italiane e straniere, che nel 2011 permise al festival di essere definito dal ministero del Turismo come patrimonio d'Italia tra le eccellenze che contribuiscono a promuovere l'immagine del paese. Date e programmi alla mano, fu un progetto complesso, apripista in Calabria di una modalità inedita di pensare l’animazione territoriale e lo sviluppo rurale.

castagna-2L’ex direttore artistico parla malvolentieri della sua passata esperienza. Dopo l’ennesima sollecitazione nostalgica durante le sue ferie calabre da emigrante rimpatriato, Ettore Castagna ha invocato l’oblio su Facebook: “Come una condanna questo festival mi perseguita e, in giro per la Calabria, ogni estate è una continua sequenza di: Direttore! Ma come mai Paleariza è finito di quella maniera? (Non lo so, non mi riguarda) Ma non potete tornare voi? E perché non tornate? (Perché no e basta). Non so più come dire a tutti che otto anni fa si è chiuso per sempre un capitolo della mia vita”. Parole rigorose, ma che non riescono a nascondere una vena di amarezza.

La “maniera” a cui fa riferimento è l’uscita da un Paleariza che prese una strada diametralmente opposta. La scelta del dopo Castagna fu quella di cavalcare le tendenze della tarantella pop e delle star locali, che avrebbero dovuto riempire le piazze e generare guadagno immediato. Ma qualcosa non funzionò e Paleariza si è diradato verso edizioni sempre più minimali.

Con Castagna, autore di ricerche pioneristiche come il saggio antropologico “U sonu, la danza nella Calabria greca”, edito da Squilibri, non torneremo a come andò (“qualcuno ha deciso che tutto questo doveva finire e lo hanno fatto finire, non chiedete a me quello che non posso sapere”, ha tagliato corto su Facebook, una sorta di sentenza definitiva), ma proveremo ad andare alla genesi della frattura culturale tra il sonu a ballu calabrese e la tarantella.

Una danza, quella dei festival di tendenza, che è completa invenzione. “In nessun dialetto del Sud – precisa Castagna - i balli popolari si chiamano così, questo termine deriva dall’immaginario retorico con cui la borghesia e l’aristocrazia meridionali hanno sempre edulcorato il mondo rurale, che disprezzavano identificandolo con ignoranza e povertà. Lo si nota dagli epiteti offensivi della stessa lingua italiana, come bifolco o cafone, che fanno sempre riferimento ai contadini.

I primi gruppi folk nati all’inizio del Novecento rispondevano alla necessità di rappresentare le tradizioni contadine in modo oleografico. Il MinCulPop fascista promosse quest’opera di recupero, ma era una finzione. Il folklore valorizzava strumenti come la fisarmonica ma ad esempio rifiutava la zampogna e la chitarra battente, che evocavano arretratezza. Un suo ruolo lo ha svolto anche la ‘ndrangheta, annettendosi il suono urbano reggino dell’organetto come sua musica ufficiale e cerimoniale”.

Dal sonu a ballu a un prodotto pop che la Calabria non sa neanche vendere

La tarantella festivaliera nasce da lì, da quella visione allegorica che ha fagocitato e uniformato tutti i balli popolari del Sud. Quelli veri sono tantissimi, variegati e non assimilabili. “In Calabria – continua Castagna – il sonu è come il dialetto, ogni provincia, quartiere o piccola comunità, aveva le sue danze, diverse tra loro. La tarantella dei festival ha condotto a un’omologazione, da Cosenza a Reggio si balla il modello ideal tipico della cosiddetta ‘rriggitana, prescelta come folk calabrese più rappresentativo, senza nessun contatto con le tradizioni popolari e i singoli territori. La tarantella dei festival  è un fenomeno pop anche interessante, ma che fa tabula rasa delle culture locali. I suonatori calabresi veri sono molto anziani e li stiamo perdendo tutti, ma per paradosso quelli ancora vivi, ritenuti non abbastanza popolari, non sono accolti bene sui palchi”.

Il primo corso del Paleariza aveva una proposta differente, mai più replicata. “Il festival diretto da me – ricorda il ricercatore – si chiamava musiche dal mondo perché metteva la cultura delle nostre comunità a contatto con i suoni di altri popoli. La proposta verteva su artisti di qualità magari poco conosciuti, eppure la gente veniva a sentirli, percepiva l’idea di base, diciamo che si fidava del cuoco. C’erano i nomi internazionali accanto ai suonatori del paese. Abbiamo fatto numeri rilevanti, duemila persone in un piccolo centro non sono pochi, c’era chi venendo da Reggio o altre città, affittava una casa  di vacanza per godersi un festival non solo musicale ma fatto di trekking, ospitalità rurale, prodotto tipico e artigianato, senza dimenticare la memoria della lingua greca”.

Il coinvolgimento dei residenti nel borgo era centrale. “Il nostro festival erano i ragazzi di Bova, Bagaladi, Palizzi, Melito. Erano le donne che convincevo a cucinare piatti tipici invece del solito panino da sagra. Comunità che si riappropriavano del loro passato ma con una funzione nuova, trasformandolo in una occasione di lavoro fondata sulla valorizzazione delle diversità. Oggi in Calabria siamo pieni di festival che predicano di salvare le tradizioni ma la loro offerta non è diversa da quelle dei supermercati. Capisco di dire qualcosa di molto duro e netto, ma vorrei precisare che io non ho niente contro la contemporaneità. I gusti e le abitudini dominate dal mercato hanno la loro logica. Io continuo a sostenere che la biodiversità culturale è ricchezza e che non c’è bisogno di fare archeologia per mantenerla viva”.

Le successive edizioni del festival non sono riuscite ad attrarre le folle auspicate. “Quel tipo di proposta stereotipata – dice Castagna – alla lunga ha stancato. Quella che io chiamo la tarantella obbligatoria, a cui mi sono opposto, non poteva dare la spinta a farsi chilometri e arrivare in posti non facilmente accessibili. E le comunità si sono fatte abbagliare dal satizzometro, profitto rapido misurato dalla vendita di panini e salsiccia. Se vuoi il prodotto commerciale però devi farlo funzionare”. Ne abbiamo prova a due passi da qui, in Puglia, dove la pizzica è stata stereotipata e commercializzata, ma il prodotto taranta è di successo.  “Vuoi comprare e vendere la cosiddetta tradizione? Si può fare, ma ci sono commercianti buoni e commercianti cattivi. In Puglia hanno creato un prodotto competitivo, in un modello capitalistico sono stati più bravi dei calabresi”.      

Fondatore del gruppo ormai ultraquarantenne dei Re Niliu, pochi mesi fa Castagna ha pubblicato un disco di esordio da solista, “Eremia”. In greco antico significa solitudine, è così che si sente? “Come musicista ho preso le distanze dal mondo della tradizione e oggi mi dedico a comporre come cantautore. La ricchezza degli insegnamenti di anziani musicisti di lira, zampogna, chitarra battente la tengo per me insieme agli ascolti di qualsiasi genere musicale che riesca a interessarmi. Per chi rifiuta l’omologazione oggi sentirsi soli è inevitabile”.

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